Crisi e beni comuni

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Alla ricerca di possibili vie d’uscita dalla crisi che ci coinvolge ci affidiamo soprattutto alle scelte dei governi. Si tratta di un’aspettativa legittima, stante la portata dei problemi. Eppure non dovremmo trascurare di interrogarci su alcuni aspetti che potrebbero fare la differenza per affrontare la difficile situazione in cui siamo. Due sono le questioni che, tra le altre, possono fare la differenza: il valore dei beni comuni e l’incidenza del livello locale. Sembra di proporre Davide contro Golia. Proprio per questo allora, forse, vale la pena pensarci. I cosiddetti beni comuni non indicano beni di proprietà pubblica, dello Stato o dei governi locali, ma, invece, tutti quei beni – naturali e non – che sono privi di restrizioni all’accesso e che sono indispensabili per la sopravvivenza delle comunità che con essi interagiscono o che hanno con gli stessi un rapporto inestricabile di co-evoluzione. Essenziale, per garantire, la riproducibilità di questi beni, che sono non contendibili, ossia che vanno a beneficio di tutti e che se ben conservati non deperiscono per l’uso, è il loro buon governo, la cosiddetta loro governance efficace e, se del caso, eccellente. Le popolazioni delle società tradizionali ci danno evidenti esempi a questo proposito: conservazione secolare delle risorse naturali e storico-ambientali, oppure di risorse scarse (acqua, manutenzione e uso appropriato dei boschi, fertilità del terreno). Tali risorse continuano a garantire la sopravvivenza di quelle popolazioni e spesso a migliorarne la qualità della vita grazie al buon governo basato sulla responsabilità diretta e sulle decisioni vicine all’azione. Non sono poche, in Trentino e in Alto Adige, le situazioni riconducibili alla categoria di bene comune. Elinor Olstrom ha vinto recentemente il Premio Nobel in Economia (un vero miracolo viste le attenzioni prevalenti nel campo delle discipline economiche negli ultimi decenni) per aver dedicato tutta la sua vita allo studio di tali beni comuni. Il riconoscimento le è stato dato, insieme all’economista Oliver Williamson, per i suoi studi sul governo delle risorse senza proprietari (i beni comuni o common), come i pascoli, le foreste, le acque, le aree di pesca, l’atmosfera o il world wide web. Un caso rappresentativo di natura positiva è il villaggio svizzero di Torbel, che dal 1517 governa comunitariamente il pascolo alpino con la regola che «in estate nessuno può pascolare più vacche di quante riesca a mantenerne in inverno».
Le condizioni che permettono il governo comunitario dei beni comuni sono: la partecipazione diretta degli utilizzatori al monitoraggio, la gradualità delle sanzioni ai trasgressori, la comunicazione faccia a faccia, la possibilità di escludere gli estranei, l’assenza di cambiamenti tecnici o sociali accelerati e altre. Le regole possono reggersi sulla sorveglianza volontaria dei membri di una comunità.
I diversi livelli di decentramento delle decisioni, la partecipazione diretta e responsabile ricorrendo a deliberazioni inclusive che coinvolgano scienziati, utilizzatori e osservatori interessati, possono portare a costruire il capitale di relazioni necessario per gestire i conflitti e assicurare l’applicazione efficace delle soluzioni proposte. Tutto ciò è possibile su scala locale e grazie ad una partecipazione attiva e diretta. È possibile, quindi, riconoscere l'importanza dell'esistenza di una terza via tra Stato, altri enti pubblici e mercato, affinché una gestione "comunitaria" possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi a proposito dei beni collettivi globali, come l'atmosfera, il clima, il paesaggio, l’acqua, il territorio. Ma molto significativa anche per l'attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori.