Donne e bene generale

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

E’ buona cosa domandarsi cosa dice un importante evento internazionale alla nostra realtà. È questo il caso del recente premio Nobel per la pace assegnato a tre donne africane, la yemenita Tawakkol Karman; la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf; Leymah Gbowee, anche lei dello Yemen. Che cosa accomuna quelle donne premiate dall’Accademia svedese? Il fatto di aver trasformato la loro presenza e il loro ruolo femminile in metafora e pratica del bene generale, può essere la risposta. Quel premio non mette al centro l’esigenza di garantire pari opportunità; non ha nessun tono rivendicazionista; non ha una connotazione compensatoria. No. Trova la sua origine e le sue ragioni, quel riconoscimento, nella storia di quelle donne e nell’universalità del loro impegno. È perché sono riuscite a investire le loro vite in cause che sono di tutti, con obiettivi di bene comune, che quelle donne sono riuscite a raggiungere risultati unici con l’impegno della loro presenza. Spesso, da noi, la questione femminile appare ancora troppo legata a qualcosa da concedere e a qualcosa da rivendicare. Le due posizioni finiscono per essere reciproche e ci sarebbe da chiedersi quali risultati concreti raggiungono le pur diffuse forme associative che intendono occuparsi della questione. Certo, ci sono pregiudizi diffusi da superare e persistono, in intere istituzioni, forme di emarginazione e di assenza di pari opportunità. È però necessario domandarsi se non sia la presa diretta con l’azione e con i problemi la via più efficace oggi per avere finalmente la valorizzazione della ricchezza dei linguaggi e dei codici femminili e maschili all’interno della nostra società. Le storie delle donne premio Nobel sono storie di persone che hanno agito e agiscono per problemi e di fronte ai problemi assumono frontalmente una linea di azione. Il loro impegno riguarda il bene generale e si propone di agire per obiettivi universali: la lotta alla corruzione; la ricostruzione delle scuole; la lotta contro regimi autoritari; il recupero di baby-soldati. Nelle azioni di quelle donne si vedono all’opera obiettivi che sono di tutti. Spicca lo stile femminile nell’affrontarli, ma sono obiettivi di tutti. Questo ci pare il punto cruciale. L’universalità dell’impegno può portare a cambiare, grazie a un codice femminile, i modi di fare le cose e le stesse cose da fare, evitando il rischio che certi ruoli rivendicati e ricoperti da donne, siano poi interpretati replicando gli stili maschili. In quel caso le opportunità magari sarebbero pari, ma i problemi rimarrebbero irrisolti. Se un problema grave è oggi la trascuratezza in tutto il campo della gestione e dello sviluppo delle risorse umane nel pubblico e nel privato, perché non cambia quasi niente quando una donna diventa dirigete o direttore? Per quanto possa apparire impegnativo, il messaggio che sembra provenire dall’Africa e da Stoccolma, ci dice che l’azione su problemi universali con uno stile differente è la via mediante la quale le donne possono concorrere a costruire, anche da noi, una società e un mondo migliore.