Cultura e precarietà del lavoro

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

«Solo in un atteggiamento critico d’assoluta tensione può essere vissuta la speranza come energia vitale”. Così scrive Pier Paolo Pasolini in conclusione dei suoi Scritti Corsari. Un simile atteggiamento pare utile da coltivare nel momento in cui Agenzia del lavoro e Sindacato, in Trentino, si dispongono ad approfondire i cambiamenti del lavoro, oggi. Ciò è avvenuto in un’aula di formazione di Trentino School of Management. L’assoluta tensione è necessaria perché le trasformazioni del lavoro si presentano, per molti aspetti, disarmanti a chi se ne occupa con obiettivi di tutela e emancipazione di chi lavora. La crisi deve essere guardata in faccia. Ci vuole un attento esame di realtà. Che cosa sta cambiando nel lavoro e cosa genera la precarietà? La considerazione degli aspetti normativi, economici e organizzativi non basta. Quegli aspetti sono importanti ma lo sguardo deve essere rivolto alle implicazioni individuali e sociali del lavoro che cambia. La precarietà e la frammentazione del lavoro incidono direttamente sui processi di individuazione personale e sulle capacità soggettive di elaborare l’incertezza. La precarietà come condizione, come la ricerca mette in evidenza, genera una regressione verso la rassegnazione e il conformismo. Attacca direttamente la possibilità di costruire un senso e un significato al proprio rapporto con gli altri con cui si lavora e con il compito lavorativo. Chiunque abbia sperimentato almeno una volta il valore del “ben fatto” e l’importanza di realizzarlo con un altro o con degli altri, sa di cosa si sta parlando. Così come decisivo è il riconoscimento altrui dei propri risultati lavorativi. Il valore riconosciuto di un’opera rinvia un significato positivo a chi l’ha realizzata. La precarietà attacca alla base i processi di mediazione tra individuo e società, tra soggetto e cittadinanza, mettendo in crisi il legame sociale. Il gruppo di lavoro con una certa continuità, i compiti lavorativi di una certa durata e l’istituzione in cui si lavora, o si lavorava, fungono da mediazione tra l’individuo e la città, tra ogni soggetto e la partecipazione civile. Le ricadute drammatiche della precarietà sono perciò pervasive e meritano, per essere affrontate, quell’assoluta tensione di cui scrive Pasolini. Non è facile, certo, vedere nella criticità del presente i semi di un’evoluzione che, attraverso la trasformazione in corso, conduca a un’inedita civiltà del lavoro. I segni di un modello di sviluppo che non si identifichi con la crescita quantitativa e che ponga al centro una solidarietà con gli altri e la natura di cui facciamo parte, sono numerosi. Così come emerge evidente il valore della conoscenza e il ruolo decisivo della ricerca, dell’innovazione delle competenze e della tecnologia. È necessario immaginare originali forme organizzative capaci di nuove forme di rappresentanza. Servono nuovi criteri per la partecipazione sociale e la cittadinanza. Compiti non facili, ma conforta che ci sia chi ci sta pensando e già ci lavora.