Altruismo

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Guardando indietro il buio che abbiamo attraversato e ancora stiamo attraversando nell’ultimo quarto di secolo, come l’Angelo della storia di Paul Klee, possiamo constatare, tra le altre cose, la parabola dell’altruismo. Se lo facciamo ne ricaviamo un orientamento di valore decisivo per il presente; una bussola per le difficili scelte che abbiamo davanti nelle nostre società locali e nelle nostre stesse vite. A orientarci ci può aiutare la ricerca scientifica, che sta cambiando decisamente i connotati al significato stesso di essere umani. Aveva iniziato Michael Tomasello all’MIT di Boston e al Max Planch Institut di Antropologia evolutiva a Leipzig in Germania, nel duemilanove, a mettere in evidenza un modo originale di intendere l’altruismo. Ora si ricevono conferme di portata decisiva dalle ricerche condotte presso l’Università di Chicago, dal neurobiologo Jean Decety e dal suo gruppo. Quello che emerge è che parlando di altruismo noi ci troviamo di fronte a tre questioni e non a due, come a lungo abbiamo pensato e tuttora pensiamo nella maggior parte dei casi. Si ritiene, infatti, che, o si è avidi egoisti che perseguono solo ed esclusivamente la massimizzazione dei propri interessi, o si è “francescani” che abbandonano le ricchezze e gli interessi in nome di ragioni di ordine superiore e, comunque, eccezionalmente. Queste due posizioni sono note e la prima ha un amplissimo consenso che va dal modello di uomo alla base delle discipline economiche, con qualche eccezione recente che rimane minoranza, fino alla vulgata cinematografica del Gekko di Wall Street, film che forse avremmo dovuto considerare più attentamente e criticamente, prestando attenzione al Gekko che è in noi. In questa prospettiva l’altruismo è materia per anime belle, o quel marginale stato d’animo che induce a distribuire le briciole. Ma allora qual è la terza possibilità? È quella che la ricerca evidenzia sempre più chiaramente; quella che ci consente di riconoscerci esseri relazionali e sociali che nell’altro trovano la fonte del significato di se stessi e delle proprie possibilità. Quella che ci permette di comprendere che senza l’altro semplicemente non possiamo definirci e che l’altro è l’altra metà del mio cielo. Non perché moralisticamente gli concedo uno spazio o la mia carità, o perché egoisticamente mi serve per i miei scopi, in quanto dipendente, cliente e consumatore; ma perché nella relazione con lei o con lui risiede il senso di ciò che faccio, la mia stessa individuazione e le condizioni fiduciarie per far funzionare ogni scambio economico. La scoperta che non solo gli esseri umani ma anche le altre specie si comportano in modo altruistico, e che un topo sceglie innanzitutto di liberare il suo simile imprigionato e poi di mangiare con lui la cioccolata che avrebbe potuto mangiare prima da solo, come ha dimostrato Decety, cambia il significato stesso dell’altruismo. Intanto, come per la razza, l’egoismo avido non ha alcuna giustificazione genetica. È un’invenzione storica che sostenuta dall’educazione e dai valori dominanti ha finito per prevalere fino ad apparire naturale. I suoi guasti sono sotto gli occhi di tutti. Ma soprattutto pare essenziale riconoscere che l’altruismo non è la negazione dell’attenzione a se stessi e al proprio interesse; è un modo di riconoscere che il bene comune con l’altro è la prima condizione per il bene individuale. Un orientamento decisivo per chi educa, lavora e vive nel nostro tempo.