Giocare è una cosa seria

A proposito del libro di Martino Doni e Stefano Tomelleri, Giochi sociologici, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Giocare è una cosa seria, non solo perché nella lingua di Shakespeare “gioco” si dice in due modi, play e game, ma perché il gioco riguarda molti ambiti della nostra vita. Nei modi di pensare più diffusi è una questione da bambini. Gli adulti sanno bene, però, che quando affrontano questioni che definiamo serie, in realtà stanno anche mettendosi in gioco con gli altri. Scopriamo così che il gioco ha a che fare con il confronto di punti di vista diversi, con la gestione delle differenze culturali, con la capacità di immaginare via d’uscita inedite. Ecco: proprio con il conflitto, inteso come confronto fra punti di vista diversi, con il dialogo tra valori culturali e con la capacità di immaginare soluzioni e innovazioni che prima non c’erano, ha a che fare il gioco. Di questo si occupa un seminario di studio organizzato a Villa Bortolazzi di Acquaviva da Formazione Lavoro, società per la formazione di Trento, mettendo al centro un gioco un po’ speciale: “Che cosa possa fare io per il Trentino?”, dal titolo Agorà, con evidente richiamo alla democrazia partecipativa di greca memoria. Il seminario di studio coinvolgerà i partecipanti in un percorso letteralmente educativo. Se educare vuol dire tirar fuori da ognuno di noi quello che diversamente non saremmo in grado di esprimere, l’educazione ci riguarda tutti e, in particolare, ha a che fare, come ricorda sempre Gustavo Zagrebelsky, con la vita stessa della democrazia. L’occasione del seminario è collegata alla pubblicazione di un libro originale e innovativo come Giochi sociologici. Conflitto, cultura, immaginazione, scritto da Martino Doni e Stefano Tomelleri, docenti dell’Università di Bergamo, appena edito da Raffaello Cortina Editore. Leggendo il libro si formano nel lettore, pudicamente (perché il libro è anche divertente, nel senso più pienio del termine) quattro assi che accompagnano la lettura:

- la leggerezza con cui guardare alla specificità del gioco e guadagnare alla questione una puntuale presenza nel nostro modo di vivere e pensare;

- la cura a guidare all'applicazione della logica del gioco, responsabilizzando sull'originalità di ogni gioco e di ogni volta che lo si gioca (come nella vita);

- la varietà delle situazioni proposte, che lette a raggiera creano un orizzonte sociale e situazionale affascinante;

- la rilevanza per una trasformazione della didattica da una centratura sull'insegnamentoa una centratura sull'apprendimento, che è tanto più necessaria quanto trascurata, soprattutto dentro l'università.

Secondo gli autori il gioco è inscritto nella natura stessa delle relazioni umane e accompagna e ci accompagna dall’infanzia all’età adulta. Non stiamo parlando di quel gioco che è basato sull’azzardo o sul rischio e che tormenta la nostra epoca, ma del modo in cui ognuno di noi si mette in gioco ogni giorno per essere parte delle realtà in cui vive, dai luoghi di lavoro, alla città, alle compagnie di amici, allo sport, alla vita familiare. Gli autori sostengono che nel gioco le donne e gli uomini sperimentano l’incontro con l’altro, con i rischi che ogni incontro comporta, con le incertezze, con la nascita o la perdita della fiducia, con quello che ognuno può essere per sé e per l’altro. È vero che nel linguaggio di ogni giorno il gioco richiama qualcosa di effimero. Ciò è innegabile ma, riflettendo con attenzione, non è difficile accorgersi che il gioco aiuta a mettere in evidenza le forme più nascoste delle relazioni e delle azioni sociali. Basterebbe riconoscere che ogni possibilità di messa in discussione dell’ordine esistente e, quindi, di innovazione dipende decisamente dal gioco per rendersi conto della sua rilevanza. Di un giunto che ruota in una camera che lo contiene si dice che ha gioco: quello spazio è la condizione del funzionamento di quella macchina. Il gioco, nello stesso senso, è condizione del funzionamento delle realtà in cui viviamo. Applicare una simile prospettiva alla realtà trentina, ad esempio, significa almeno due cose: immaginare possibile vie alternative possibili foriere di innovazione; percorrere le vie dell’ironia sul presente, riconoscendo che l’ironia è il sale della terra per ogni realtà che non voglia ripetere se stessa, come mostra la refrattarietà che i poteri dominanti di solito hanno nel confronti dell’ironia. Certo il gioco e il mettersi in gioco tendono a suscitare un certo imbarazzo e una certa sensazione di incompetenza. Si sa, però, che non appena si inizia ci si prende gusto e allora si può scoprire che il mondo è un progetto e un’invenzione e che ognuno di noi può essere parte attiva nel crearlo. Un aspetto decisivo del seminario e del libro pare proprio riguardare la sua ricaduta didattica. L’educazione oggi tende ad essere prigioniera di canoni; tende a replicare seriose formule indipendentemente dalla loro efficacia e si basa sulla didattica frontale e direttiva, nella maggior parte dei casi. Una didattica capace di partire dalle vie molteplici che la mente umana segue per apprendere è ben lontana da venire. Sia nell’educazione dei bambini e degli adolescenti, che nell’educazione degli adulti, sarebbe particolarmente importante che si valorizzassero le potenzialità del gioco, come via rilevante per accedere alla conoscenza e per la creatività e l’innovazione.