Paesaggi da vivere

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Se il paesaggio è spazio e forma di vita, abbiamo il paesaggio che ci meritiamo e la responsabilità di meritarcelo. Perciò conviene riflettere sull’importanza della scelta di porre al centro il paesaggio nel Piano Urbanistico Provinciale in Trentino e sui piani che le Comunità di valle stanno facendo per governarlo.

Una differenza rilevante sembra individuabile tra le posizioni che assumono che il paesaggio vi sia “prima” che gli esseri umani lo percepiscono, lo creano e lo vivono, e le posizioni epigenetiche, quelle che ritengono che il paesaggio emerga al punto di incontro tra percezione individuale e collettiva, mondo interno di coloro che percepiscono un luogo, luogo stesso, ambiente, e territorio, e solo per quella via divenga uno spazio di vita almeno in parte consapevole. Per queste ragioni pare si possa sostenere che non siano solo le scissioni tra territorio, ambiente e paesaggio, quelle da superare, ma anche le scissioni tra dimensione etica del paesaggio e sua dimensione estetica. A meno che per estetica non si intenda, come pare intendere Salvatore Settis, solo il lato esteriore delle cose. L’estetica intesa come struttura di legame tra mente e natura1, tra soggetto e mondo, contiene l’etica, che della prima si alimenta e informa. “L’estetica è la madre dell’etica”, ha sostenuto il poeta Josif Brodskij, nel discorso tenuto in occasione del conferimento del premio Nobel. Sostenere perciò, come fa Settis, che “dobbiamo ormai partire da una definizione operativa di paesaggio, passando dal paesaggio “estetico”(da guardare) al paesaggio etico (da vivere)”2, implica almeno tre problemi. Il primo riguarda il modo scisso di intendere l’estetica e l’etica. Il secondo la concezione stessa di estetica come esteriorità formale. Il terzo problema è relativo all’etica e alla sua concezione che la riporta alla morale. Di fatto “etico” richiama l’abituale, lo stare in un luogo e i relativi modi di starci. Se la tutela del paesaggio riguarda il benessere fisico e mentale essa si connette alla ricerca delle condizioni di vivibilità, alla loro crisi e all’esigenza di cambiare idea e comportamenti in proposito. Non abbiamo motivo di ritenere che negli orientamenti strategici degli attori che usano e anche abusano del paesaggio, non vi sia la convinzione di fare la cosa che secondo loro è giusta. Così non abbiamo motivo per ritenere che chiunque agisca nel paesaggio in un certo modo non lo faccia sulla base di un costume, di credenze, di modi di intendere le risorse naturali e di orientamenti che sostengono le scelte. Sono proprio quegli orientamenti strategici, la loro natura affettiva e cognitiva e le prassi che essi sostengono, il punto da cui partire. Se la natura è concepita come un bene di cui appropriarsi in forme di fruizione basate sull’individualismo liberista, promuovere una cultura del bene comune non può essere solo un problema normativo e di controllo; deve necessariamente essere una questione educativa che esige l’elaborazione dei conflitti e delle contraddizioni che interverranno a fronte di una trasformazione storica e epocale. Da una concezione e da prassi in cui la natura era vissuta come separata dagli esseri umani, nemica da cui difendersi, risorsa da usare senza limiti, abbiamo bisogno di sviluppare una cultura della natura come realtà di cui siamo parte, o meglio, come la realtà che noi stessi siamo. I paesaggi della nostra vita potranno emergere se saranno generati da processi educativi in grado di promuovere il cambiamento di orientamenti e di prassi per una vivibilità all’insegna del limite in cui la specie umana si senta parte del tutto.

1 Bateson G., 1984, Mente e natura, 14.a edizione, Adelphi, Milano.

2 Settis S., 2012, Perché difendere il paesaggio è un gesto etico, la Repubblica, 21 marzo.