Cooperazione e nuovo modello di sviluppo

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Chissà se avremo la capacità di accorgerci che disponiamo di una delle forme d’impresa più significative per fare i conti con le tendenze principali di evoluzione della società e dell’economia, oggi? Quella forma d’impresa è la forma cooperativa, che rappresenta una componente fondamentale della storia, della società e dell’economia del nostro sistema locale, ma allo stesso tempo non sempre è valorizzata per le sue specificità. Anzi è spesso snaturata con tendenze e scelte che tendono all’imitazione del modello d’impresa iperliberista, principale responsabile della profonda crisi strutturale che sta vivendo il mondo. Per gli aspetti umani, economici, finanziari, ambientali di quella crisi, la forma d’impresa cooperativa che può integrare partecipazione sociale, umanesimo manageriale e risultati economici, si propone come distintiva e vincente. Ma dovrebbe essere praticata con maggiore determinazione. Così non sempre accade e intanto le punte più avanzate della ricerca mostrano la rilevanza di un modello di sviluppo e di un modo di lavorare e fare impresa che è decisamente improntato alla visione e alle pratiche cooperative. Sentiamo ad esempio cosa dice Jeremy Rifkin, uno dei più acuti studiosi del nostro tempo, in un libro che si chiama La civiltà dell’empatia: “L’idea convenzionale che interpreta le transazioni di mercato come scontri tra avversari è stata sconfessata dalle reti collaborative, basate su strategie di beneficio reciproco. La cooperazione vince sulla concorrenza”. La scoperta evidente degli svantaggi per molti e dei vantaggi per pochi dell’arroganza managerialista, sta generando una macrotendenza che fa scoprire i vantaggi della cooperazione. Che è un modo non distruttivo di praticare la concorrenza. Sarebbe il caso di svegliarsi e di non arrivare sempre in ritardo. Sarebbe il caso di accorgersi che un certo modo di pensare ed agire, mettendo al centro l’individualismo autointeressato e l’esasperazione dei numeri come se fossero separati dalla qualità della vita e dai beni relazionali, è autodistruttiva, soprattutto per un sistema locale. Quel sistema altro non potrebbe fare, se si sganciasse dalla propria distinzione e dall’integrazione tra società, cultura ed economia, che vendersi al miglior offerente. L’innovazione è necessaria e la modernizzazione dovrebbe essere la più avanzata possibile. Ma si tratta di scegliere una modernizzazione capace di valorizzare l’umanesimo gestionale e un modello di sviluppo sostenibile basato sulla conoscenza e sull’apertura, non sull’imitazione. Si tratta di fare un salto di qualità che smetta di vedere come se fosse “naturale” ciò che naturale non è affatto, ma frutto di scelte che vanno nella direzione di non considerare lo stretto rapporto tra cooperazione, qualità della vita di lavoro, sostenibilità ambientale ed esigenza di un nuovo modello di sviluppo. È tempo di dedicarsi all’evoluzione appropriata di quello che abbiamo, invece di scimmiottare ciò che non siamo e non conviene cercare di diventare.