Serena Giordani su Erba cedra e segreti amori di Ugo Morelli

Hic et Nunc

Vengo dalla terra dove il vento di ponente, nelle notti invernali di luna piena, spinge le nuvole basse così veloci che sembrano le stelle a muoversi, a correre verso il mare. Una terra di mezzo, tra i due mari, ma terra, terra più che mai ( .. )

Scorrono le parole di Ugo Morelli, scorrono in una ricerca espressiva continua ma naturalmente disinvolta, dove l’attenzione ai significati, al ritmo, al suono, all’accordo fra le parole e alla loro potenza evocativa, accompagna una tensione interpretativa rivolta al sentire in tutta la sua complessità. Sono parole che smuovono, abbracciano e conducono un moto interiore quasi inarrestabile che pervade, rendendo pungente la vita e il suo mistero, mentre incidono il ricordo, l’attesa, la speranza, il dolore. Erba cedra e segreti amori, il terremoto dentro è il racconto di una donna bella e conturbante, dal corpo sinuoso e dalle gambe dritte come fusi che reggono fianchi leggeri e irresistibili sotto le vesti di seconda mano. Una donna che incarna una forza a cui nessuno e nulla sembra in grado di opporsi, forza che si manifesta con atteggiamenti seducenti e provocanti, forza che affascina e attrae come tutto ciò che ha il sapore del proibito. Come avevo gli occhi lo sapevo, certo; mi guardavo nel pezzo di specchio rotto che tenevamo nel buco del muro sopra il bacile, e mi piacevo. Mi piaceva mandare lampi guardando chi mi guardava, fissare e spostare gli occhi da un’altra parte lasciando che dicessero: guarda com’è cresciuta; guarda come si è fatta bella; non è più una bambina, si è fatta femmina; e che occhi. Occhi neri infuocati e quei riccioli cadenti, malandrini, a far da decoro. Occhi di strega, come mi disse il Padrone la prima volta, disteso, affranto sul mucchio di fieno appena tagliato, dopo che si era perso nelle mie viscere. Non avrebbe più avuto pace, come e di più di tutti gli altri che si sono abbandonati alla mia carne. Mistero femminile, donna fatale che incarna appieno il significato dell’aggettivo che deriva dal latino fatum ciò che è stato segnato, ciò che dovrà inevitabilmente accadere. Quello che volevo lo facevo accadere con gli occhi e con un corpo che mi assecondava; veniva dove volevo, il mio corpo e trascinava con sé chiunque volevo.

Figura tanto seducente quanto emblematica, perché non completamente accessibile che parla una lingua solo sua e che condivide solo con se stessa. Con tutti ho sempre parlato quell’altra, quella di qui, che parlano tutti. Una sola volta nella vita mi è venuta voglia di parlarla, quella lingua nuova che mi ha aperto un altro mondo, ma mi sono detta: tieni la capa fresca, lascia perdere, stai in questo mondo dove vivi e mantieniti quel segreto assieme a tutti gli altri, ai tanti segreti della tua vita. Misteriosa fin dal suo primo apparire, quasi inafferrabile nel suo annunciarsi, spinta dal desiderio di vita come le nuvole sono sospinte dal vento. Descritta in modo da non dare mai pienamente conto di sé, simbolo di un’instancabile inquietudine esistenziale che la nutre e la intride di sincera umanità. Non è che i fiori di biancospino fossero immediatamente accessibili. Avevano questo di bello, che si annunciavano col profumo. Per nasi capaci di sentirli. Solo dopo, tra spine e rovi avrebbero presentato la loro eleganza e la loro costosa geometria.

Ugo Morelli accede al complesso mondo femminile con una facilità estrema, lo coglie in profondità nelle sfumature dei sentimenti, nel flusso delle emozioni e con sapiente capacità di immedesimazione rende vivide e intensamente conturbanti le tensioni e le pulsioni nel momento dell’incontro dei corpi. Giovannina, questo il suo nome, racchiude in sé più di un valore e più di un significato, sa fingere la debolezza e celare il potere che le scorre dentro. A lei, alle sue parole è affidato il racconto di una terra di confine secca e avara in pochi luoghi generosa, terra violentata dagli uomini che non l’hanno mai amata prima ancora che dai terremoti che spesso e volentieri l’hanno devastata e in particolare le Filette quell’angolo del meridione della terra d’Italia, al centro dell’Irpinia, dove gli uomini erranti avevano costruito la casa, trovando requie dopo tante peripezie. La memoria stabilisce contatti fulminei con un passato dal quale emergono, attraverso un procedere fluido e accattivante, i ricordi, le persone. Personaggi indimenticabili come Basilio, Olimpio, Pingulicchio, Scarparo, Compà Martino, Màsciosc, la Bomba, Angelo cento capelli, Antonietta, Fiorentina, Adelina e Antonio, Raffaele e la Zingara s’imprimono come attimi, attimi sì ma privilegiati. Prendono forma le loro immagini, si fissano subitanee negli occhi e con la stessa immediatezza è possibile percepire l’odore della loro pelle, sperimentare l’intensità del loro sguardo, avvertire l’ansia del loro vivere quotidiano, intuire la tacita sospensione che in loro lascia il dolore, sorridere quando l’ironia si fa sottile o la vita gioca strani scherzi. Prendiamo possesso di altre vite e alla fine ci appartengono questi uomini e queste donne, anche quando di alcuni non viene svelato neppure il nome. Piccole storie dove la parlata locale sembra conficcarsi a forza nel ricordo, rendendoli ancora più veri. Ricordo accompagnato dalla litania del vento che ritorna continuamente nel romanzo. La bora introduce la storia di Antonietta, un soffio tremendo annuncia il terremoto: niente trovò più pace. Gli uccelli persero il canto. Gli uomini la via. E’ il terremoto dell’agosto del millenovecentosessantadue, quando la terra si rivoltò per porre fine ad un mondo già pieno di crepe. Tutti ricordano l’ultimo terremoto; nessuno parla del penultimo. Il terremoto del sessantadue fu l’inizio di uno scempio che vent’anni dopo, nell’ ’ottanta, giunse a compimento, per quello che ne fecero quelli che si erano alleati e allenati con quello del sessantadue. Morelli, secco e tagliente, non manca di denunciare gli scandali, la speculazione criminosa, il clientelismo amorale che ferì quella terra dove favori e voti di scambio permisero le grandi abbuffate di pochi che approfittarono senza remore della prostrazione di esseri umani piegati dalla forza potente della natura. Le crepe più larghe e profonde le aveva fatte e le faceva chi menava il gioco di quel cambiamento e ne approfittava: pochi, a volte uno solo, e i suoi faccendieri. A farli accogliere fu che erano di quel mondo pure loro, imparentati e vicini, parevano seri, conosciuti e affidabili e riuscivano perciò a ottenere quello che volevano. La gente a loro credeva, di loro si fidava, parlavano lo stesso dialetto e sapevano usare le parole giuste, tenevano il miele in bocca e il rasoio in mano, per portare una popolazione per la maggior parte analfabeta e semplice dove volevano loro. Tutto avvenne in un silenzio drammatico. (…) quello sbandamento dell’equilibrio di ogni cosa, cambiò tutto per sempre e fece di quel mondo un altro mondo. Cambiò le persone dentro, oltre che il mondo fuori. Fu un terremoto dentro e non solo un terremoto fuori.

I luoghi, come le persone, concorrono alla storia e in alcuni casi come in Un uomo, sembrano fluttuare fra ricordo e nostalgia, in completa assenza di coordinate fisse ma necessarie ad esprimere l’esigenza di uno sguardo attento al mondo, risultato di un’analisi introspettiva profonda perché ciò che muove è il desiderio di conoscenza, affinché la cultura sia la via principale della vita. L’aula grazie a lui perdeva il peso e il paese da terremotato diventava posto di bellezza. Perché ricostruire le case senza lo spirito, lo stile e i valori di vicinato, propri della civiltà contadina, senza quei segni di speranza, di fiducia nell’avvenire, le case sarebbero diventate vuote, prive di sentimento, soltanto dei ricoveri ma non parti di una comunità, non dei paesi, non delle città. (…) Certo, si deve ricostruire dopo le sciagure, diceva, ma si ricostruisce nel segno della bellezza, perché la bellezza è verità, perché la bellezza è libertà, perché la bellezza è il riflesso dell’immagine dell’universo e del sacro che è nell’universo ma che è dentro il cuore di tutti gli uomini. Giovannina stessa sperimenta la bellezza dei luoghi in un viaggio di passione attraverso la Lucania e che avrebbe portato con sé per tutta la vita, poiché grazie all’Uomo della sorte e il Saputo Era come se mi avessero dato occhi che prima non avevo. Quell’itinerario docile e aspro, insieme alla pluralità degli scenari e agli incontri vissuti, lasciano in lei un segno indelebile. Avigliano, Tricarico, Matera, Metaponto, Pignola, Melfi, Acerenza, Ferrandina sono tessere di un patrimonio culturale e ambientale di straordinario fascino. Luoghi spesso condannati a forme di imperdonabile marginalità perché è mancata la volontà di tutelarli, valorizzarli, e prima ancora di conoscerli. Il confine tra valorizzazione, perdita e spreco è sottile e profondo (…) la memoria per esprimersi ha bisogno del presente. Se ci fa difetto il presente, la memoria non ha futuro. Dove portano le strade dell’evoluzione e del tempo è difficile dirlo, né è possibile stabilire se il fascino della memoria vincerà sullo scempio dell’oblio.
E’ la natura che vivifica il ricordo, rinforza le immagini della memoria attraverso il suo manifestarsi, attraverso un fare antico che cadenza l’essere vivi e il guardare non trova impedimento ma si piega all’incessante brulicare delle passioni. Come si cerca a lungo sfogliando il mallo e poi il guscio e poi la pelle sottile del frutto per assaporare una noce o ancora, come si pregusta l’aroma di un pinolo prima della lunga strada per raggiungerlo, mettendo prima la pigna nella brace mista a cenere calda, per poi aprirla, piano, ancora scottante, allargando i petali uno ad uno, fino a giungere al guscio vellutato e consistente di ogni pinolo, a tirarlo fuori con delicatezza e a sfoderare la pellicola che lo racchiude, e finalmente sentirlo in bocca, ecco allo stesso modo attendeva la ricerca che ogni volta lo portava al centro del piacere di me che era la fonte del suo stesso piacere. A vedermi, lo capivo, gli si allargava il cuore, e pure a me. Con lui no, era diverso. Ancora una volta come il vento di ponente si faceva sentire, il vento della passione avvolge Giovannina in un incontro indimenticabile con un uomo bambino. Significati interiori prendono vita in un istante, nascono da sguardi silenziosi, curiosi e attenti. L’attimo dell’incontro intimo si gioca sulla soglia e sospende. Mi perdevo poi senza ritegno nel languore dell’attesa, sulla soglia della vita e della morte. (…) Mi diceva che come me, lui, amava quel tempo che prolunga il sentire, lo porta sulla soglia dell'accadere, ma intanto non accade e nel suo non accadere il piacere di ascoltare e sentire diviene insostenibile. (..) Diceva che amava lo spazio speciale e magnifico che tiene l'anima e il corpo sulla soglia della bellezza, dove emerge l'ora del vero sentire. Non possiamo fare incursione, non ci è permesso. Lettori e spettatori insieme assistiamo a un evento che non ci sarà svelato completamente ma che guardiamo e ascoltiamo nel suo accadere. Così coinvolti, assaporiamo e sentiamo la risonanza dell’incontro di una donna, esperta eppur fremente, e di un bambino che sembra già uomo. E’ la danza delle parole che li svela, una danza gelosa nelle pieghe. Le emozioni piene di paura e contrasti di quell’incontro me le portai dietro anche per tutte le volte successive. Il tempo della ricerca e dell’attesa, della scoperta e della crescita si mischiavano con l’inquietudine e la passione. A volte sentivo il rumore metallico e magico di quando si stuzzuleia il fuoco e le scatelle: milioni di esplosioni d’oro, futili e incantate, come la speranza e la passione, volano senza freno nell’aria.

Come docile fibra nell’universo Giovannina tesse la trama con il presente, ad un tratto viviamo la sensazione di un tempo di mezzo e, nel momento in cui ci svela il suo nome, Giovannina, dice il manifesto a lutto sul palo della luce con sopra il mio nome, scompare. Il vento che come respiro ha accompagnato, se la porta via. A nessun dio o madonna fu forse mai chiesto di far arrivare il vento che mi portò via durante una notte di maggio. Ritornano le riflessioni di quell’uomo-bambino dove l’attesa è stata anche coraggio; dove impercettibilmente abbiamo sperimentato la precarietà e la finitezza dell’esistere, permanendo sulla soglia in cui la tensione fra finito e infinito ha portato l’anelito di una pulsazione emozionale tutta nuova; dove l’andare o l’essere senza luogo diventa coscienza espressiva, necessità dello spirito. Tanto la notte di qui è immersa ora nel silenzio, quando la luna si getta appassionata sul mondo, sulle querce e gli ulivi, così il giorno si illumina all’improvviso e congiunge al senso delle origini lo scorrere del tempo, la dimensione della vita, dove la mia è cominciata. Abitare fu sempre verbo difficile per anime erranti per origine, indole e scelte.

La vita ha affidato a Ugo Morelli un mondo e come ponte ci ha consegnato i luoghi della sua terra, l’umanità dei suoi abitanti, l’intimità dei gesti domestici ma anche la durezza dell’esistere, intrecciati alla bellezza seducente e struggente di Giovannina che alla fine sembra appartenerci visceralmente ma che invece sfuma nel nostro immaginario, lasciandoci il sentore dell’erba cedra e i suoi segreti amori, lasciandoci un’indicibile emozione che sembra preludere a una tacita attesa che appartiene all’anima e alla natura insieme, e che risuona ancora dell’intensità e del valore dell’incontro.

Erba cedra e segreti amori