Non conducono a buon fine le parole dei giovani sul lavoro. Una modesta proposta

Di Ugo Morelli.

Hic et Nunc

"Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto quello che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata". (Isaia 55:11). Le parole del profeta mal si addicono a quanto esprimono oggi i giovani che cercano, spesso, troppo spesso disperatamente e invano, di trovare qualche rapporto seppur minimo con il lavoro. Non conducono a buon fine le loro parole di aspettative, di speranza, di tentativi di farsi ascoltare. Le loro parole, quando ancora ci sono, si esprimono invano tornano indietro a vuoto. Il tasso di disoccupazione in Italia è fermo sopra il dodici per cento, quello giovanile è sopra il quaranta per cento; un paragone con la Germania mostra che lì il tasso di disoccupazione è al cinque per cento. Ci sono centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che inviano curriculum e fanno colloqui invano, in attesa di qualcosa che non arriva, e non si sa neppure cosa. Viene in mente Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Nel frattempo, in questi nostri tristi anni, il numero dei famosi Neet (Not engaged in education, employment or training) in Italia ha superato i due milioni, e costituisce circa un quarto dei giovani di età compresa fra i quindici e i ventinove anni. Un giovane su quattro, insomma, è un fantasma sociale. Le iniziative, poche, e le chiacchiere, molte, non hanno mostrato, finora di dare alcun risultato. Anche il progetto "garanzia giovani" mostra tutta la sua inconsistenza. La sua applicazione, anche in provincia di Trento, seppur presentata con molta risonanza, non sortisce effetti, se non in quei settori in cui le imprese approfittano per disporre di prestazioni gratuite e incondizionate. Se quelle presenze nelle imprese dovevano servire a favorire inserimenti lavorativi, risulta alquanto difficile immaginare, con i tempi che corrono, che ciò possa accadere. Allora ci vorrebbe un poco di coraggio in più. Bisognerebbe orientare l'autonomia di cui il Trentino dispone, a concepire e realizzare azioni specifiche, mirate e concrete per favorire l'inserimento lavorativo dei giovani. Il punto di partenza dovrebbe essere il lavoro come diritto e non come garanzia. Quel diritto esiste in ragione della presenza. Il valore del lavoro è pubblico ed è una questione civile. Allora si possono pensare forme di servizio civile allargato che riguardino tutti coloro che intendono impegnarsi per la propria comunità, in ogni settore, dall'ambiente, alla cultura, all'artigianato, al settore pubblico, all'assistenza, alla salute, all'animazione sociale e culturale dei territori. Un simile servizio civile universale porrebbe, in ogni ambito e ad ogni livello, finalmente il lavoro al centro e il riconoscimento di nuove forme possibili di lavoro come un progetto concreto di innovazione sociale. Per questa via, inoltre, si prenderebbe finalmente atto di un'evidenza che una ricerca in corso di conclusione, durata tre anni, e condotta in Trentino, in Veneto e in Lombardia, mostra con chiarezza: e cioè che non è solo la domanda di lavoro tradizionale da parte delle imprese e delle istituzioni ad essere in crisi e in forte trasformazione, ma si trasforma profondamente anche la cultura dell'offerta. I giovani non cercano e non vogliono, nella maggior parte dei casi, un lavoro stabile, nello stesso posto, per tutta la vita. Tutto sta cambiando contemporaneamente. Compresa la cultura del lavoro e il significato che il lavoro assume nell'esperienza individuale e collettiva. Siccome una funzione del settore pubblico è quella di spingere e sollecitare l'economia, non di assisterla, allora potrebbe essere davvero distintivo per il Trentino scegliere autonomamente di intervenire nel rapporto tra i giovani e il lavoro per realizzare un'azione concreta di apertura che smuova l'impasse attuale, e la sua drammaticità umana, civile ed economica.