Al di sopra della terra e aspiranti al cielo
La scoperta del tempo e l'origine del sacro

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc


Tutto è cominciato quando noi esseri umani abbiamo scoperto il tempo. E col tempo abbiamo scoperto la finitudine. La nostra finitudine. Da allora noi esseri occidentali, noi esseri al tramonto, noi che viviamo il tempo occidentale ci siamo accorti che le nostre vite sono interamente irradiate d’alba e tramonto, che si distendono fino a coprire tutta l’estensione della luce diurna: i dispositivi e i loro nomi. Il tempo è diventato la cosa indicibile, imprendibile, ineffabile: la più strana di tutte, la più inspiegabile, quella che illumina tutte le altre senza poter essere mai vista: la cosa gratuita, indisponibile, irreparabile: il tempo. La nostra condizione è divenuta, così, irreparabile e per molti aspetti insalvabile. Da quel momento per salvarci abbiamo dovuto inventare istanze salvifiche, appunto, a cui consegnare la nostra angoscia della finitudine. Abbiamo iniziato a farlo in molti modi, sfruttando la nostra capacità immaginativa e inventiva, spinta verso l’oltre, verso l’aldilà con molteplici vie e forme, ma tutte accomunate dal rinvio, dal rinviare a qualcosa o a qualcuno il compito di aiutarci a risolvere le nostre angosce. Da allora nulla è più stato lo stesso, nessuna cosa è più stata la cosa in sé e noi non abbiamo mai più coinciso con noi stessi. Avremmo dovuto poter accedere al tempo dominandolo e invece scoprendolo ci siamo accorti di esserne dominati. Ci siamo accorti della nostra finitudine scoprendo che ogni inizio ha ineluttabilmente una fine; scoprendo, in sostanza, la morte. Non è che prima non morissimo, ma una cosa è morire, altra cosa e sapere di morire; altra cosa ancora è sapere di morire pur essendo capaci di concepire l’infinito e la non finitudine. Il mistero della nascita, pur impegnativo, non ha la stessa portata del mistero della morte. Il primo, per quanto inspiegabile, certo non sul piano scientifico, ha a che fare con l’inizio. Il secondo, pur spiegato scientificamente, riduce al silenzio e atterrisce con la sua ineluttabilità, anche perché ha a che fare con la fine di tutto. La tensione rinviante ad altro rispetto al mondo fisico di cui siamo parte, quella tensione rinviante che ci caratterizza e di cui siamo capaci, quella tensione che è anche alla base della nostra autoelevazione semantica, che ci fa sentire di sentire, che ci rende capaci di creare l’arte che ci commuove o ci fa vivere il mondo come un progetto e un’invenzione, che fa di noi gli esseri che non solo sanno ma sanno di sapere, che ci rende in grado di generare la scienza e la tecnologia; quella tensione rinviante è anche alla base della creazione e dell’invenzione di universi separati – sacro viene dal latino sacer che vuol dire separato – a cui consegnare i tentativi e le speranze di elaborazione e soluzione delle nostre angosce dell’ignoto e della morte. Quel mondo a parte, relegato, quel contesto della nostra disposizione alla religio, è stato da noi proiettato oltre il mondo fisico perché da lì ci potessimo guardare e confortare nella ricerca di risposte a domande di cui siamo capaci e che risposte non hanno, per le quali non troviamo nel mondo di qui le risposte. Il sacro è per molti aspetti l’invenzione di un altro mondo, separato da questo mondo di cui siamo parte. Non vi è traccia di esseri umani, da quando ci siamo accorti del tempo e di noi, da circa duecentomila anni, che non abbiano inventato una qualche forma di sacro. Uno degli effetti di quella sistematica e reiterata invenzione è stata ed è la separazione di noi umani dal resto della natura di cui siamo parte. Una separazione con la quale ci siamo curiosamente collocati al di sopra della terra e aspiranti al cielo. Sospesi a metà strada tra la finitudine angosciante a cui siamo comunque attaccati e l’eternità a cui ci affidiamo, abbiamo desacralizzato la natura di cui siamo parte, l’abbiamo progressivamente dissacrata con comportamenti sempre più esecrabili e ci siamo consacrati a un mondo di là da venire. Oggi ci accorgiamo di aver iniziato a segare il ramo su cui siamo seduti e da non poco tempo dubitiamo dell’appiglio a cui abbiamo a lungo pensato di poterci aggrappare per non cadere. Riflettere perciò sulla natura del sacro nella nostra esperienza diventa la condizione per riconoscere la sacralità della natura, per accogliere finalmente le possibilità di elaborazione della tremenda ferita narcisistica che deriva dall’accettare, dopo tanta spinta ad autoelevarsi e a presumere superiorità inesistenti, di essere parte del tutto di un sistema vivente che i nostri comportamenti stanno pregiudicando in diversi e problematici modi. La seconda edizione de La Natura del pensiero di Arte Sella è dedicata, appunto, a riflettere su La natura del sacro/Il sacro della natura e si propone di affrontare, con i contributi dell’antropologia, Marco Aime; della teologia, Brunetto Salvarani e Gianpaolo Carbonetto; dell’estetica e dell’arte, Michelangelo Pistoletto, i vincoli e le possibilità per noi umani di elaborare questa soglia della nostra presenza sul pianeta Terra, dal cui esito dipende ogni possibilità di futuro.