Punto di fuoco
Il mondo da un pixel

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

Datemi un punto di fuoco e vi narrerò il mondo. Nell’epoca in cui ogni conoscenza si riconosce relativa al punto di vista da cui il mondo è osservato e lo sguardo dell’osservatore è considerato imprenscidibile e coinvolto nella creazione di ciò che osserva, Olivo Barbieri fa della fotografia un sublime mezzo estetico e narrativo. È davvero difficile trovare una modalità più efficace per rappresentare il mondo in cui viviamo e la nostra condizione di creatori e abitanti di quel mondo, che non sia il lavoro di Barbieri. Costretto a cercare il punto di fuoco dalla scelta del fotografo, una volta che lo abbiamo trovato ci scopriamo minuscoli, infinitesimali, nel macrocosmo artificial-naturale che è il nostro pianeta-casa. L’estensione all’inverosimile della nostra costruzione artificiale del mondo antropizzato viene sintetizzata in un pixel. Il mondo da un pixel, che la passione ossessiva di Barbieri ha scelto per noi, stando a volte per ore a bordo di un elicottero per coglierlo, quel pixel, nell’attimo in cui ci viene restituito, costringendo la nostra percezione a cercarlo a nostra volta nell’immensità dell’immagine. Il senso di perdita è assicurato e il sentimento del mondo in cui viviamo è indotto a prendere coscienza della nostra condizione, prometeica e fragilissima ad un tempo. Forse Olivo Barbieri ha fatto e fa sempre la stessa cosa: così come da piccolissimo sceglieva un punto di vista dalla terrazza di un piccolo luogo della pianura Padana dove è nato, da quel punto di osservazione ha finito per assumere poi il pianeta intero su cui viviamo come oggetto del suo lavoro. Il progetto site-specific che sta portando avanti in questi anni riguardo ad alcune città del mondo da New York a Milano, si connette nella sua ricerca agli inizi del suo lavoro e, in particolare, per chi lo vide allora, al suo primo progetto organico: una straordinaria serie di fotografie raccolte in un deposito di flipper rotti. Era la metà degli anni settanta del ventesimo secolo e la poetica di Barbieri aveva catturato immagini inquietanti e di intensa espressività sui frammenti di una modernità che, ancor prima di compiersi, mostrava inequivocabilmente le proprie rovine. Era già evidente un gioco del linguaggio e della rappresentazione fotografica che sarebbe divenuta una delle cifre della ricerca di Olivo Barbieri: quello tra centro e margine, quello tra il fuoco più intenso e lo sfocato progressivo più magnetico. La ricerca tecnica e la ricerca estetica si fondono così in un esito inscindibile e intensamente espressivo. Barbieri del resto mostra una particolare attenzione alla tecnica e ai limiti imposti dalla tecnica fotografica. Il suo è un disincanto generativo che, mentre non pretende di far dire alla fotografia più di quello che può dire, è molto esigente verso ogni possibilità, anche la più estrema e recondita. In questo modo riesce a condurci nei nostri paesaggi della contemporaneità ponendoci di fronte a quelle che, forse, sono alcune categorie che quella contemporaneità la contraddistinguono più di altre. Spazio e tempo, estensione e profondità sono risonanze costanti di fronte alle immagini di Olivo Barbieri, perché ci indicano aspetti della nostra condizione e della nostra vicenda esistenziale, ma soprattutto perché documentano l’esigenza di una nuova, inedita coscienza di specie per homo sapiens. In questa nostra epoca ci siamo scoperti gettati in uno spazio esteso che esige da noi una continua, difficile connessione tra luogo delle origini, puntuale e molecolare, pianeta come casa e spazio immenso e incommensurabile. La stessa coscienza di noi è stata chiamata ad una tensione mai vista: abitare il molecolare e il molare allo stesso tempo, senza grandi supporti in termini di mediazione facilitante. Per il tempo è accaduta una fenomenologia simile. Ci eravamo collocati in un tempo storico breve e circoscritto, cosa altamente rassicurante ancorché limitante, e abbiamo scoperto il tempo profondo e la nostra collocazione casuale. Tra la ricerca di un molecolare focalizzato e un molare sfocato, cerchiamo di ricollocarci e, nel farlo, ri-figuriamo il mondo, che è una nostra continua creazione e narrazione. L’opera di Olivo Barbieri ci viene in aiuto e anticipa, per molti aspetti, la ri-figurazione necessaria stabilendo una continua sollecitazione dei nostri paesaggi mentali verso i paesaggi reali. Ad essere accompagnate verso punti di leggibilità del mondo, allo stesso tempo discontinui e necessari, sono le nostre menti spaesate alla ricerca di impossibili punti fermi e di introvabili centri permanenti. Eppure un centro ogni immagine di Barbieri ce l’ha, ma è un centro mobile, cangiante, un serendipity, un luogo d’occasione. Come  l’orizzonte mobile di Daniele Del Giudice, le immagini di Barbieri ci indicano che la nostra individuazione possibile sta nel cercare, non nel trovare. Si tratta di una trasformazione esistenziale, forse la più acuta, a cui siamo chiamati: individuarci come coloro che cercano e cercando tendono a quello che ancora non c’è e in questo si riconoscono; quel cercare senza fine implica pure la capacità di contenere l’incontenibile malinconia che ci procura l’aver noi concepito noi stessi come centro del tutto, ritenendo più e più volte di averlo trovato quel centro, la cui caducità repentina o tardiva, ci ha poi indotti a tentare di pensarci diversamente. Come ogni autentica narrazione, i paesaggi di Barbieri creano mondi e concorrono a ri-figurare non solo il mondo in cui viviamo, ma la nostra stessa modalità di pensarci esploratori che creano il mondo che essi stessi esplorano.