E' la reazione all'evento il vero evento

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

La costruzione mediatica e argomentativa architettata dai portavoce ufficiali e interessati per sfruttare a scopi di consenso l’evento che ha interessato il Presidente del Consiglio italiano in Piazza del Duomo a Milano, è una verifica di due aspetti fondamentali, uno riguardante le dinamiche delle menti umane e l’altro la natura della comunicazione umana.  Entrambi gli aspetti confermano che un evento viene riconosciuto e vale, soprattutto per i modi in cui ad esso si reagisce. Il dato più evidente è la crescita di sette o otto punti di consenso che il Presidente del Consiglio ha ricavato dall’evento di Piazza del Duomo. Come ha potuto verificarsi? Utilizzando l’evento per convertire comunicativamente a proprio favore, in un momento di difficoltà dell’intero impianto del consenso basato soprattutto sul controllo e la manipolazione dell’informazione, fattori come l’ “odio”, l’ ”aggressione”, la “provocazione”. Di quei fattori e del loro uso politico e comunicativo il propugnatore e l’utilizzatore autentico è stato ed è esattamente il Presidente del Consiglio. Chi ha creato una costante operazione di demonizzazione dell’avversario, un’aggressione sistematica alle istituzioni delle quali si è avvalso per giungere a prendere il potere, una continua provocazione ingiuriosa verso chiunque esprima un pensiero diverso dal suo, che dalle sue affermazioni si è diramata alla fitta e pervasiva rete degli organi di comunicazione controllati direttamente o mediante una classe giornalistica che, anche nel servizio pubblico, sta esprimendo il peggio di sé; chi ha fatto tutto questo è stato ed è il Presidente del Consiglio italiano. Come è possibile allora che le dichiarazioni interessate e programmate all’unisono delle “milizie combattenti” della sua schiera di guardiani, dai più vuoti e ripetitivi a la Cicchitto fino al penoso e servile Capezzone, riescano a confondere i fatti, o meglio riescano ad evitare che si parli dei fatti e, quindi, riescano a cambiare le premesse? Perché la maggior parte delle persone accetta come vere premesse false e così smaccatamente falsate? Accade qualcosa come nei ritardi aerei: “ci scusiamo per l’ora di ritardo in partenza, dovuta ad un ritardo nel volo precedente”. L’espressione “ritardo nel volo precedente” diviene immediatamente una spiegazione accettata e assolutoria. Ma come mai? Il ritardo del volo precedente chi lo ha causato? Chi ne è responsabile? Si può discutere l’organizzazione della compagnia? Si può parlare delle ragioni del disservizio? Si possono considerare i vantaggi che la compagnia ha a coprire quella tratta e la sua disponibilità di aeromobili? No. Tutto questo non si può fare e non si fa. Siamo di fronte alla verifica del fatto che la comunicazione umana è un’impresa cooperativa legata alla creazione di premesse sotto forma di un tessuto concettuale che determina i codici e i contenuti della comunicazione stessa. Chi detta le premessa domina la comunicazione: gli altri si dibattono nelle sfumature, scambiando l’ombra per la realtà. Il tessuto concettuale della comunicazione è strettamente connesso al tessuto motivazionale, e quando le aspettative sono organizzate verso il disimpegno, il disprezzo delle regole, l’arroganza negli stili, l’urlare il torto sostenendolo come ragione, il sostenere in modo reiterato il falso proponendolo come vero; quando a guidare questo orientamento e questa pratica è chi governa un paese, avendo predisposto un humus adatto da Dallas in poi; quando tutto questo si avvale del comando del più irregolare dei sistemi di informazione del mondo; quando a guidare l’intera operazione dalla posizione di Presidente del Consiglio è una persona che non era candidabile in base ai conflitti di interesse di cui è portatore; quando tutto questo accade si ottiene l’Italia di oggi, dove il consenso è confuso con la democrazia; il conflitto non è ammesso e le istituzioni sono messe in discussione fino al limite della loro tenuta. Perché ciò accada, come accade, ci vogliono almeno due condizioni corrispondenti e concomitanti che devono essere comprese. La prima riguarda la dimensione relazionale del fenomeno. Se un tale processo si afferma esso si genera e costruisce nella relazione tra la popolazione consenziente e i protagonisti. A quella relazione si deve necessariamente guardare per comprendere come sia possibile che la maggioranza degli italiani sia stata e sia d’accordo con quanto sta succedendo. Vi possono essere, prima dell’urgenza di impegnarsi a fondo per analizzare i meccanismi del consenso, almeno tre componenti di quel consenso. La prima probabilmente coincide con l’articolata e vasta aggregazione di gruppi di interesse che sta traendo vantaggi di breve e di lunga durata da questo modo di “governare”, dai rapporti con il fisco, ai condoni di diverso genere e nome, alla spartizione di vantaggi più o meno diretti. Un nuovo sistema di potere spregiudicato e amorale che interpreta il liberismo in chiave xenofoba e la legge e le istituzioni in chiave strumentale ai propri interessi: una proiezione del leader che alligna soprattutto in coloro che aspirano alla stessa modalità di autorealizzazione. La seconda riguarda l’ampia massa di popolazione che dal nord al sud d’Italia riversa il proprio disagio per la storia recente e il presente difficile in una speranza semplificata in proposte populiste tanto più attraenti quanto più diffuse con formule dichiarative e irresponsabili. La terza e più problematica è data dal vuoto lasciato dalla cosiddetta opposizione: un vuoto di linguaggio, di contenuti e di stile, che rappresenta probabilmente la ragione principale del vantaggio di una prospettiva che sta violentando le basi costitutive di un paese già fragile per integrazione culturale e valori istituzionali. Ciononostante rimane decisivo comprendere come si creano i meccanismi del consenso per un processo che continua a generare effetti indesiderabili anche per la maggior parte di coloro che quel consenso lo esprimono. 

Luca Mori

La democrazia è una forma di governo fragile e pericolosa: fragilità e pericolosità che derivano dagli usi possibili del consenso e dai modi della sua formazione. Ne erano consapevoli già i teorici greci della politica, quando evidenziavano la tendenza insita nella democrazia a degenerare in demagogia e oclocrazia. I maestri della retorica, dal canto loro, avevano teorizzato che un buon racconto verosimile può risultare più credibile di uno vero e che un ragionamento ben fatto, richiedendo molti passaggi e sottili distinzioni, convince meno di uno approssimativo: così, la generalizzazione a partire da un solo esempio è più efficace di una lunga catena di induzioni, e trarre conclusioni o slogan da premesse artefatte ha un’evidenza emotivo-cognitiva e un impatto maggiore che imbastire lunghe catene di sillogismi. Consapevoli di tutto questo, avvertendo il gravissimo rischio che si corre quando l’abilità retorica di un ciarlatano incontra menti interessate o suggestionabili disposte a credergli, uomini abituati a discutere sottilmente sulle forme di governo e sulle loro trasformazioni arrivarono a pensare che le elezioni fossero una tecnica politica oligarchica piuttosto che democratica: perché le “grandi famiglie”, con la loro capacità di fare pressione, influenzare e sedurre, solleticando interessi e generando aspettative, riuscirebbero a impossessarsi dello spazio pubblico gestendo il potere e passandoselo in eredità come cosa privata, per giunta investite da un popolo convinto di detenere la prerogativa della scelta. Perciò nella democrazia ateniese furono privilegiate l’estrazione a sorte e il principio della rotazione delle cariche, con una regolazione scrupolosa dell’obbligo della rendicontazione. Quando la democrazia fu reinventata per gli Stati nazionali moderni, nella seconda metà dell’Ottocento un fautore della libertà come John Stuart Mill metteva in guardia dalle distorsioni legate alla tecnica elettorale, proponendo che menti diversamente competenti e allenate avessero diritto a voti di “pesi differenti”. Guardando, con curiosità sociologica e antropologica, le schiere colorate di giovani ventenni che affrontano i “provini di Grande Fratello”, vedendo i loro volti trasecolare a domande generali sul parlamento e sul presidente del consiglio, sentendoli balbettare ad esempio che Berlusconi è il presidente della Repubblica e che Piersilvio Berlusconi è il presidente del consiglio, è difficile non provare nostalgia per l’avvertimento di Mill. Eppure, con quella sua idea s’introduce in effetti una discriminazione aristocratica di principio nel momento del voto, che forse peggiorerebbe il male: ma non aver affrontato il nodo dell’educazione diffusa alla mente democratica ha prodotto una discriminazione oligarchica di fatto nei processi di selezione dei governanti. Ne consegue il “dispotismo morbido”, di cui scriveva già Tocqueville.
Di tutto ciò sono consapevoli oggi gli spin-doctors, i consulenti politici, i guru del marketing politico assoldati da ogni parte del mondo: il sapiente uso dei sondaggi e la loro divulgazione al momento opportuno; la minuziosa costruzione dell’immagine del politico, dagli abiti al trucco alle singole parole da pronunciare; l’invenzione di storie consone alle aspettative prevalenti (il politico come buon padre di famiglia, come cristiano devoto, come autore di miracoli o miracolato, come preveggente o come vittima), tutto concorre ad appassionare molti, come ci si appassiona per il protagonista di un reality-show e lo si sostiene con il “televoto”.
Infatti siamo nell’era del televoto. Quanto più uno dispone di soldi, di portavoce prezzolati e interessati, di canali mediatici, tanto più può imporre immagini, interpretazioni di fatti, storie verosimili, paure o speranze. Anche se sono state abbandonate le teorie che enfatizzavano una dipendenza lineare e quasi deterministica tra i contenuti veicolati dai mass media e le credenze degli spettatori/destinatari, ciò non significa che tale condizionamento non esista affatto. Vale per la mente ciò che vale per il corpo, essendo l’una e l’altro due facce della stessa medaglia: prendete una persona e nutritela ogni giorno con leccornie, caramelle, dolci, cibi fabbricati industrialmente, di una pessima fattura nascosta sotto coloranti e edulcoranti, e ne vedrete inevitabilmente, a lungo andare, le funeste conseguenze; prendete una mente e nutritela ogni giorno di giochi stupidi, di ciarle insulse, di gossip e schiamazzi, di pessimo giornalismo – tenendola per di più in un’ignoranza programmatica della storia contemporanea e senza occasioni per esercitare le proprie competenze relazionali e comunicative – e ne vedrete inevitabilmente, a lungo andare, le funeste conseguenze: nel primo caso avrete cresciuto un corpo carente di sostanze vitali e pertanto malato, nel secondo caso avrete allevato una mente da suddito.
In Italia la sinistra ha perso la sfida dell’egemonia, cioè del consenso di qualità costruito sui tempi lunghi, di quel consenso che presuppone investimenti nella scuola e negli spazi pubblici per l’educazione di tutti alla democrazia, al conflitto, a non avere menti da sudditi. Da decenni, mentre nessuno si preoccupava che nelle scuole la storia contemporanea passasse sotto silenzio e che l’educazione civica fosse assente o ridotta a catechismo insipido, le televisioni fabbricavano credenze e coltivavano il linguaggio e l’immaginario di milioni di persone, quotidianamente, pazientemente, inavvertitamente. L’esito di questa storia è sotto gli occhi di tutti: un’inedita anomalia nella storia delle democrazie mondiali. Il proprietario delle fabbriche di credenze, dopo aver annunciato la nascita di due partiti – prima in differita, poi in diretta televisiva – dopo aver diviso lo spazio politico tra difensori e nemici della democrazia e della libertà, dopo essersi presentato come salvatore della patria-azienda pronto a rinunciare ai propri affari pur di difendere la libertà di tutti, dopo essersi presentato alle telecamere di volta in volta come Eroe acclamato o perseguitato (tanto che persino la moglie avrebbe chiesto il divorzio perché suggestionata dai Comunisti), è riuscito a concentrare su di sé il potere politico, oltre a quello economico e mediatico. Potere politico che, sia nella dimensione legislativa che esecutiva, richiederebbe di essere condiviso: ma in presenza di una legittimazione che Weber avrebbe definito carismatica, forte della sbandierata eccezionalità della sua biografia, al punto da poter dichiarare che tutti gli Italiani desiderano essere come lui, il presidente del Consiglio ha mostrato di non tollerare che la concentrazione nella sua persona del potere politico genericamente inteso, del potere economico e di quello mediatico trovi impedimenti e limiti nella tripartizione tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Persino il suo parlamento, quello occupato dalla sua maggioranza, gli è apparso come un ostacolo vuoto e pletorico. Con questo ci troviamo di fronte a un punto cieco della teoria della divisione dei poteri di Montesquieu: non si è detto e non si è fatto abbastanza per tenere separati lo strapotere economico e mediatico dal potere politico.
La democraticità di una forma di governo non si fonda sul fatto che il governante possa fare appello al consenso ottenuto per pretendere che ogni sua decisione sia accettata o per collocarsi al di fuori della portata del potere giudiziario; ciò che dovrebbe contare è invece la responsabilità di chi governa nel rendere conto a chi dissente. Non sull’appello al consenso, ma soltanto sulla cittadinanza del dissenso e sull’obbligo di rendere conto a chi dissente può fondarsi una democrazia non populistica e demagogica: con questo siamo all’ABC della teoria politica, ma evidentemente neppure alcuni influenti esponenti dell’opposizione hanno colto abbastanza questi elementi. Mentre un capo del governo, legittimato per via di elezioni, si richiama al consenso della maggioranza per contrapporsi individualmente ad istituzioni altrettanto legittimate dal consenso e persino alle regole costituzionali, alle metanorme ancor più legittimate da un consenso trasversale come garanti della maggioranza e della minoranza; mentre in modo antidemocratico e morbidamente “violento” colui che si presenta come “eletto dal popolo” induce un tale cortocircuito tra legittimazione elettorale e legalità, alcuni esponenti dell’opposizione esortano esplicitamente all’“inciucio” come unica opzione disponibile al realismo politico; altri continuano a cullare il sogno di superare l’eletto dal popolo con una migliore strategia di marketing; altri ancora si trastullano con parole e colori, “sinistra e libertà”, “sinistra e libertà, ecologia”, “sinistra, ecologia, libertà”, arrivando a veri e propri capolavori di découpage e collage come il simbolo “Rifondazione comunisti italiani”, circondato da un anello rosso con le scritte “Sinistra europea Socialismo 2000 Gue/Ngl Consumatori uniti”. “Consumatori uniti” nel comunismo! Difficilmente si troverà un’attestazione migliore di quale “cornice”/“frame” ha vinto: siamo consumatori, uniti nel nome dei nostri diritti di consumatori.
Queste reazioni e attività sono segno del fatto che l’opposizione, finora, si è fatta dettare e imporre da altri la cornice, il “frame”: quello della competizione personalistica e “spettacolare”, propensa a esorcizzare la confusione dei programmi o l’incapacità di accedere ai conflitti con l’invenzione di simboli. Intanto, il conflitto in TV viene rappresentato come scontro, nella sistematica e strategica esasperazione dei toni. Si confonde l’odio con il diritto allo sdegno più intransigente e, lentamente, la democrazia si svuota.
Viviamo in un’illusione ottica innominabile: le dinamiche di formazione ed espressione del consenso, formalmente democratiche, possono condurre a qualcosa che non è democrazia; ma non reagiamo con tutta l’urgenza e la coesione che sarebbe richiesta alla patologia della nostra democrazia, perché non la avvertiamo ancora abbastanza, come non percepiamo – se non facciamo molta attenzione - i cambiamenti troppo lenti o gli effetti del trompe-l’oeil, come le trasformazioni quotidiane del nostro corpo o l’illusione di tridimensionalità prodotta da un buon pittore. Forse una qualche forma di resistenza e proposta – da attuare con investimenti mirati nella scuola e in una cultura ben distinta dallo “spettacolo” – è possibile nei vari livelli di governo locale, dove ci sono ancora spazi di confronto sottratti ai canali dei mass media e dove restano possibili pratiche di formazione del consenso e di accesso al conflitto alternative a quelle ormai prevalenti a livello nazionale.