Istanti e trame, istinti e tracce

A proposito di due libri di Giuseppe Varchetta:
ISTANTI, Marsilio, Venezia 2011
TRAME DI BELLEZZA, Guerini e associati 2011

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

A proposito della poesia di Paul Celan, Theodor W. Adorno ebbe a scrivere che il poeta era impossibilitato a “parlare dell’orrore attraverso il silenzio”, come si legge in T. W. Adorno e P. Celan, Solo con me stesso e le mie poesie, Archinto, Milano 2011. La circospetta operazione di avvicinamento all’immagine e al pensiero che Giuseppe Varchetta ci consegna con questi due libri, il primo di fotografie e il secondo di riflessioni e dialoghi appunto, è consonate con i sussurri, le brevi e misurate espressioni, i tentativi non timidi ma attenti, l’attesa, il dubbio tra dire non dire, tra riprendere un’immagine e non farlo, che distingue la soglia tra la parola e il silenzio. Non perché Varchetta non ami la parola, non ami documentare con la fotografia i propri incontri, non ami la scrittura. Anzi. È il modo in cui parla, scrive e fotografa, che trova qui un vertice della sua espressione. Qui, in questi due libri, dove i titoli dicono molto dello stile e del valore della sua espressione e produzione. In una costante e quasi ossessiva attenzione ai mondi che incontra e ai contributi degli altri, Varchetta insinua, ogni tanto, il proprio sguardo e il proprio codice, quasi surrettiziamente. A Napoli si dice: lancia la pietra e nasconde la mano. Le sue contribuzioni originali, frutto di un importante sforzo generativo, sono distribuite negli istanti e nelle tracce. Mai casualmente, come potrebbe apparire a prima vista. Bisogna saper aspettare, ma osservando attentamente un’immagine del suo repertorio fotografico ormai quarantennale o leggendo i suoi testi, mentre sembra far nient’altro che descrivere il mondo o gli altrui pensieri da cui si fa sorreggere nella sua ricerca, spuntano le sue trame che configurano un pensiero sul presente che merita grande attenzione. È lui a deciderlo. Non bisogna pensare a uno stile che si astiene o ritrae. Tutt’altro. Con determinazione e preservandosi o riservandosi di selezionare un’immagine o di segnare un pensiero, Varchetta decide cosa ci concede. Come sa chi ha con lui conversazioni telefoniche. Se è lui a chiamare, la durata e lo sviluppo dei contenuti della telefonata possono essere ampi. Se è lui ad essere chiamato ne emerge di solito uno scambio secco, governato con monosillabi e chiuso prima possibile. La riconduzione del mondo ai suoi frammenti costitutivi, per poi analizzarli e risalire al significato delle cose, è il modo di procedere della ricerca. Qualcosa di simile accade in questi due libri. Gli istanti sono, in fondo, le componenti elementari del tempo e del suo scorrere, i pixel delle immagini della realtà che noi siamo e in cui siamo immersi. Allo stesso modo le tracce riescono a parlare del nostro cammino, lo documentano inesorabilmente e ne scrivono il racconto. Istanti di che e tracce di cosa? Istanti di vita e tracce di bellezza. Ecco di cosa si occupa Varchetta con questi suoi due ultimi lavori che documentano due delle sue passioni più intense: la fotografia e la psicologia umana. In fondo, sembra dirci l’autore, si può comprendere qualcosa di rilevante del mondo, osservando chi guarda, ascoltando chi parla, leggendo chi scrive. C’è chi si ostina a voler misurare la natura dell’ordito e così ritiene di dare il suo contributo alla comprensione dei significati del mondo; può esserci la via che si rivolge alle trame e, non pretendendo definizioni e spiegazioni definitive, tratteggia segni del mondo che ne raccontano aspetti di non poco rilievo. L’invito a chi guarda le sue fotografie o legge le sue pagine è chiaro da parte di Varchetta: si tratta di cercare nel profondo di noi stessi gli elementi e la via per sentirci e conoscerci e per sentire e conoscere il mondo. Esiste sempre un punto privilegiato da cui cogliere la distinzione di un pensiero, fatta naturalmente la tara all’arbitrarietà del lettore che entra nella “favola”. Per questi due libri di Varchetta c’è un verso, che egli stesso sceglie e commenta in Trame di bellezza, che può essere un viatico per percorrere le sue immagini e i suoi pensieri. Il verso è di Ingeborg Bachmann e recita: “Ciò che ti separa da te, sei tu”. È un tema “classico”, quello posto da questo fulminante verso, per Giuseppe Varchetta. Già quando si occupò a lungo della solidarietà ne sottolineò sempre con cura e una certa insistenza, la dimensione “interna”, prima ancora che quella che possiamo esprimere nelle relazioni, o meglio, come condizione di quella che nelle relazioni può emergere. Ultimamente la concentrazione sullo “spazio” che si configura “tra” uno e altro; la generatività di quello spazio e il valore dell’intermedietà, interessano ancora Varchetta alla dimensione interna e al mondo esterno come proiezione e espressione dell’interiorità, dei suoi fantasmi e delle sue meraviglie. Eppure una presa diretta c’è nel lavoro di questo autore, ai cui sforzi dobbiamo non poco per comprendere alcune delle nostre vicende in questo tempo di soglia, dal lavoro, all’organizzazione, alle forme di vita sociale in cui siamo immersi in quella che egli chiama ostinatamente la nostra contemporaneità. Documentando la passione dello sguardo Varchetta ci mostra che siamo ciò che guardiamo; occupandosi della nostra ricerca delle vie per arrivare a noi stessi e sentire almeno un po’ della bellezza del mondo dentro noi, noi siamo, o meglio diveniamo, quel granello di mondo a cui tendiamo. Varchetta ultimamente, appunto, mentre mostra questa realtà contingente della nostra vita, affastella, come egli dice, carte e pensieri, per cercare di documentare una “terzietà”, la cui esistenza sembrerebbe riconoscibile, accanto e unitamente all’interiorità. Se poi - qualora riuscissimo a comprendere qualcosa di più di noi stessi, in questa fatica di Sisifo di conoscerci e di fare di noi stessi l’oggetto del nostro conoscere - quella interiorità e quello spazio esistono o sono solo un mito, per ora non ci è dato di saperlo; se ci accorgeremo, come pare ci stiamo accorgendo, che non c’è niente dentro e non c’è niente in mezzo, allora, forse, potremo riconoscere che sono la nostra risonanza incarnata e la nostra molteplicità condivisa a dare vita a quella provvisoria contingenza, per quanto affascinante e terribile, che noi siamo. Potremo riconoscerci autofondati nelle essenze accomunanti che ci rendono parte del tutto, da cui contingentemente emergiamo. Allora forse potremo pensare all’”io” come a un dispositivo retorico arcaico che ci fece pensare a noi stessi come “d-io” e mentre ci diede qualche leva per sollevarci dalla nostra tacita appartenenza alla materia, ci fece pagare costi terribili per gli eccessi di narcisismo e supponenza che ne derivarono. O potremo vedere in quella “terzietà” uno spazio inesistente, come accadde quando Anassimandro nel sesto secolo avanti Cristo, mostrò che non c’erano elefanti su cui la terra appoggiava, né tartarughe che sorreggevano elefanti, né un’infinita pila di tartarughe che si sorreggevano una sopra l’altra. Mostrò, finalmente, che eravamo per un istante del tempo ospitati da una sfera sospesa nel vuoto e, così, ci ridimensionò e terrorizzò, forse, ma anche ci dimensionò e aprì le porte alle possibilità dell’autofondazione. Autofondazione che non significa immiserimento riduzionista della nostra distinzione specie specifica; né significa trascurare le distinzioni evolutive che insieme agli istinti e alle tracce ci fanno vivere di istanti e trame. Anzi, riprendere daccapo il nostro conoscerci può farci divenire, forse, più appropriatamente ciò che siamo e, alfine, seppur con l’irriducibilità di ogni unicità, comprenderci. Se riuscissimo almeno in parte in quella comprensione, allora forse ci accorgeremmo dell’aleatorietà delle nostre illusioni esplicative, certo fascinose e appaganti, e che l’essenzialità naturalculturale della nostra autofondazione potrebbe fare di noi degli esseri meno barocchi e pretenziosi e, forse, più capaci di viversi nelle possibilità della propria finitudine.

14 novembre 2011