Effetti psichici della precarietà lavorativa

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Dice un lavoratore precario, in questa ricerca in corso sugli effetti psichici della precarietà: “a me è stato detto: ‘bene, ti abbiamo dato una settimana per guarire e per riflettere, perché l’azienda è come una macchina e se si buca una gomma noi la cambiamo”. Aveva ragione Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, a sostenere, all’inizio della crisi finanziaria che ci fa tremare ogni giorno, che un grande evento cambia ogni cosa solo se cambia il modo in cui vedi te stesso. Il precariato lavorativo cambia il modo in cui un’intera generazione vede se stessa. “Il lavoro precario per me significa un profondo mal di vivere”; “mi sento un’ombra invisibile in questa società sempre di corsa”. Fino ai profondi sensi di colpa per un sentimento di costante inadeguatezza: “o sai troppo perché non hai fatto altro che studiare; o sai troppo poco e, comunque, non sai quello che serve, magari per risolvere un problema o per una settimana, perché dopo non servirà più e dovresti essere già diverso”. Per quanto flessibili, non si può rispondere a domande insoddisfacibili, senza alcuna garanzia di giustizia. “Senza poter dare alcuna garanzia a chi te le chiede, né alle banche, né a nessuno. “Questa situazione mina veramente il grado di autostima e la consapevolezza anche minima che ognuno dovrebbe avere di se stesso”. La precarietà lavorativa, oltre ai disagi economici, genera effetti sulla progettualità individuale e sugli stessi processi di individuazione. Tali effetti psichici si estendono dal livello individuale a quello sociale, assumendo caratteristiche problematiche che meritano di essere considerate. Se il lavoro è una delle vie per la generazione di senso e significato, sembrano evidenti gli effetti di saturazione della progettualità individuale che derivano dalla precarietà; accanto all’emergere di forme di indifferenza sociale e al conformismo rispetto alle condizioni di accesso al lavoro. Non mancano certo le autocritiche di un’intera generazione e il riconoscimento di contraddizioni intrinseche che riguardano il modo in cui si è stati educati, cresciuti e la situazione attuale. “La nostra generazione è nata con il culetto sugli allori; siamo stai tutti serviti e riveriti dalle madri e adesso guarda qui, non siamo capaci di adattarci a una situazione che comunque non concede nulla”. Le ricadute sono anche di altro tipo e riguardano lo scarso impegno e lo scarso investimento in crescita di competenze da spendere sul lavoro: “visto che quando vogliono mi fanno fuori, vabbè chissenefrega, a stò punto faccio quello che voglio”. Se si parametrano questi accenni di risultati della ricerca al valore del lavoro per l’individuo e per la società, per la progettualità sociale e l’innovazione economica e, ancor di più, per la democrazia, pare proprio importante riflettere e farlo intensamente. Per evitare che si affermi quello che dice un intervistato: “Il lavoro precario è l’inizio della fine”.