Vivere divenendo e conoscendo il divenire

A proposito della seconda edizione del libro di Alfonso M. Iacono, L’evento e l’osservatore, Edizioni ETS, Pisa 2013.
Di Ugo Morelli.

Hic et Nunc

In quest’ultimo quarto di secolo, in non molti, abbiamo riflettuto intensamente su due aspetti reciproci della conoscenza e del nostro modo di conoscere noi stessi e il mondo. Da un lato abbiamo cercato di farci capaci che non possiamo conoscere il mondo e nessuno dei suoi eventi senza farne parte. Dall’altro che conoscere un mondo vuol dire cercare di partecipare alla sua impermanenza inattesa, col nostro divenire vivendo e conoscendo. Possiamo cercare e conoscere con metodi diversi di protezione, da quello sperimentale a quello narrativo, ma pur riuscendo la nostra mente relazionale incarnata a concepirlo, non ci è dato uno sguardo “as if” sul mondo e sugli eventi; uno sguardo, cioè, “come se” fosse dal di fuori. Non è stato e non è facile affrontare la riflessione sul nostro stesso modo di conoscere. Le resistenze e le difese a perseverare nell’illusione di uno sguardo imperturbabile e le derive verso una consegna magica al mistero si sono alternate e si alternano tra new-realism e new-age. D’altra parte alcuni tra i contributi più rilevanti della tradizione di studi psicoanalitici ci hanno indicato importanti motivi che sostengono quelle resistenze e quelle difese, segnalandoci l’incidenza dell’angoscia epistemofilica, interveniente ogni qual volta siamo di fronte a cambiare idea su un evento o sul mondo. Se la filia verso ogni nuova conoscenza è ansiogena, ancor di più pare lo sia quella verso il cambiare conoscenza sul nostro stesso modo di conoscere. Chi ci aiutò e tuttora ci aiuta a ridefinire il nostro rapporto con la conoscenza, stando sulle spalle di giganti come Bateson, Bernard, Varela, Vico, von Foerster e altri, è stato ed è Alfonso M. Iacono, con un libro, tra gli altri, che ora esce in una nuova edizione: L’evento e l’osservatore. Ricerche sulla storicità della conoscenza, Edizioni ETS, Pisa 2013. Oggi, forse più che nel 1987, quando alcuni di noi si stupirono del caso straordinario di quella pubblicazione dell’editore Lubrina di Bergamo, elegante e raffinata, viene da chiedersi quanto lunga debba essere la trasformazione di un orientamento epistemologico nella scienza e nella conoscenza. O forse la trasformazione si diffonde per vie non sempre percepibili e anche carsicamente ci consegna a un certo punto a un nuovo modo di pensare noi stessi e il mondo. Certo è che questi sono stati anni interessanti, al margine, sul punto di faglia, in mezzo al guado, tra i feticismi dello sguardo scientista classico, il lancio in avanti di un possibile sapere senza fondamenti e il riconoscimento della crisi della ragione, per richiamare l’insostituibile apporto di Aldo Giorgio Gargani, fino a prestare attenzione all’inatteso, all’emergente, all’entenzionale e alla vita come creazione, nel cercare di conoscere noi stessi e il mondo. Accogliere che la mente relazionale incarnata che siamo, seleziona, semplifica e tendendo a divenire, conosce, così come accettare che l’inatteso che scaturisce dal mutamento è l’oggetto della nostra conoscenza possibile, ci colloca in una condizione mobile e dinamica che sfida la nostra prevalente propensione a rassicurarci nella forza dell’abitudine. Intanto però ci consente, probabilmente, di riconoscere la conoscenza come un’emergenza storica; ci permette di accorgerci della “storicità della conoscenza”, come sostiene Iacono. Proviamo allo stesso tempo un senso di deposizione dal piedistallo del soggetto conoscente oggettivo e “senza occhi filtranti”, a guisa di Dio, dove ci eravamo collocati, e un sentimento di liberazione e autofondazione delle conoscenze sub-ottime a cui riusciamo ad accedere. Siamo di fronte all’opportunità che ci deriva dalla coscienza del limite delle nostre capacità conoscitive, e possiamo elaborarla accogliendo e facendo fruttare le possibilità che il vincolo sprigiona, o affogando nella nostra ferita narcisistica. Come sostiene Droysen, citato da Iacono: “Nel percepire l’urlo d’angoscia, noi sentiamo l’angoscia di chi urla”. Accade per la nostra capacità di conoscere qualcosa di simile a quanto siamo in grado di comprendere di noi stessi e della nostra individuazione. Judith Butler, infatti, in proposito scrive: “Nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale”. La conoscenza dipende dagli eventi mutevoli così come sono colti dallo sguardo contingente dell’osservatore che in quegli eventi vive o che quegli eventi osserva come parte del tutto. L’analisi dell’emergenza storica e contingente della nostra conoscenza può essere ritenuta il tema di questo libro decisivo di Alfonso M. Iacono. Nella profonda Prefazione alla nuova edizione del libro, Iacono ne ricerca connessioni e fondamenti originari. Il dialogo con Momigliano permette all’autore di stabilire una connessione circolare tra il soggetto conoscente e l’oggetto della conoscenza: “noi studiamo il mutamento perché siamo mutevoli”. Per questa ragione la conoscenza è storica: essendo noi mutevoli e, aggiungiamo pure finiti, la nostra conoscenza del mutamento non può mai essere definitiva. L’idea di complessità e il ruolo dell’osservatore si propongono, così, come due capisaldi del contributo di Iacono, accanto ad una profonda e opportuna analisi del tema dell’autonomia. Quell’irriducibilità della distanza e la costanza dell’interpretazione che è sempre indiretta potrebbero essere, ancora una volta, vissute come un disturbo di una conoscenza e di una comunicazione lineari e perfette. Si propongono invece come le condizioni stesse di possibilità della conoscenza e della comunicazione, mediante l’approssimazione e la semplificazione che ne costituiscono la natura. Natura che è ambigua, in quanto allo stesso tempo condizione di possibilità e pericolosa. L’autonomia di ognuno e di ogni evento o sistema vivente, così ben detta da W. Szimborska, quando scrive: “Sono quella che sono,/ un caso inconcepibile,/ come ogni caso”, consente di riconoscere che, come sostiene Iacono dialogando con Primo Levi: “Ogni interpretazione rientra inevitabilmente in uno schema e ritaglia un mondo che non è complementare, né si completa con gli schemi e i mondi delle altre interpretazioni, che è irriducibile”. Sull’irriducibilità della nostra unicità un’altra poetessa, Anna Achmatova, si è espressa: “Ma io vi prevengo che vivo/ per l'ultima volta./Né come rondine, né come acero,/ né come giunco, né come stella, /né come acqua sorgiva, /né come suono di campane/ turberò la gente, /e non visiterò i sogni altrui /con un gemito insaziato”.

L’autonomia e l’unicità irriducibili di ognuno e di ogni evento sono alla base della nostra necessità di semplificazione e delle deformazioni patologiche che la semplificazione può comportare, facendoci prigionieri di quegli schemi che noi stessi costruiamo e reifichiamo, più o meno consapevolmente. Dal gioco tra distanza e coinvolgimento deriva la responsabilità della posizione dell’osservatore, dei vincoli e delle possibilità di elaborare la complessità della conoscenza e di comprendere. “La complessità non implica l’ingiudicabilità”, scrive Iacono, “comporta il fatto che la storia deve essere usata non come un luogo della rassicurazione, ma come una strategia della comprensione”. Del resto viviamo, noi, nel tempo della “dissimmetria tra il linguaggio e quella che chiamiamo realtà”.

J.M.Coetzee, nel suo libro Elisabeth Costello, Einaudi, 2004 (2003), a pagina 23, scrive:
“C’è stato un tempo in cui credevamo di saperlo. Credevamo che quando il testo diceva: “Sul tavolo c’era un bicchiere d’acqua”, ci fosse davvero un tavolo e sopra il tavolo un bicchiere d’acqua, e ci bastava guardare nello specchio di parole del testo per vederli. Ma tutto questo è finito. Lo specchio di parole s’è infranto, irreparabilmente, a quanto pare. Su quello che sta succedendo nella sala conferenza, la vostra ipotesi vale quanto la mia: uomini e uomini, uomini e scimmie, scimmie e uomini, scimmie e scimmie. La stessa sala conferenza potrebbe essere semplicemente uno zoo. Le parole sulla pagina non si ergeranno più una per una a proclamare: “Significo quello che significo!”. Il dizionario, che stava accanto alla Bibbia e alle opere di Shakespeare sopra il camino, dove nelle pie case romane venivano custoditi gli dèi penati, è diventato solo un cifrario, uno fra tanti.”

L’avvicinarsi discreto agli altri e al mondo, che in altre circostanze abbiamo chiamato approssimazione, assume in tal modo la forma di vita dei nostri vincoli e delle nostre possibilità effettive di conoscenza e comunicazione. In questi anni in cui il contributo di Iacono ci ha accompagnato e in più e più modi ha fecondato la nostra ricerca, sempre volto allo studio della conoscenza del nostro conoscere, con testi importanti come, tra gli altri, Mondi intermedi e complessità, scritto con l’amato maestro comune, Aldo Giorgio Gargani, e L’illusione e il sostituto, un approfondimento sulla riproduzione, l’imitazione e la rappresentazione nel processo di conoscenza, sono accadute importanti evoluzioni riguardo a quello che sappiamo a proposito della nostra esperienza di esseri umani che vivono conoscendo e conoscendo divengono se stessi. Nello scambio fecondo di pensieri, oltre che nella ricerca interdisciplinare, abbiamo potuto vedere suffragate alcune delle ipotesi di Iacono dai risultati degli studi neuroscientifici di Vittorio Gallese sulla risonanza e simulazione incarnate e sulla molteplicità condivisa, che riconoscono nella relazione e nella sua contingenza gli stessi fondamenti naturali dell’individuazione. Le relazioni con gli altri, con il mondo e i nostri movimenti nei contesti della vita, contengono le condizioni dell’emergenza di noi stessi. Diveniamo noi stessi mentre osserviamo il sistema di vita di cui siamo parte in una contingenza evolutiva che contribuiamo a creare. In questo gioco di autonomia/dipendenza siamo noi la “tecnica” della nostra osservazione, come mostra un’importante ricostruzione storica di Jonathan Crary, Le tecniche dell’osservatore, apparsa nel 1990 e ora pubblicata da Einaudi (Torino 2013), occupandosi del rapporto tra visione e modernità nel diciannovesimo secolo e evidenziando la tensione e l’intreccio tra regimi di visibilità, regimi di enunciazione e linee di forza della dimensione del potere e di quella della soggettivazione, con decisi richiami a Foucault e a Deleuze.

Suffragando il cammino tracciato da Iacono e alla ricerca di percorsi per sostanziare l’orientamento epistemologico della complessità, si colloca un ponderoso e pionieristico lavoro di Terrence W. Deacon, Natura incompleta. Come la mente è emersa dalla materia, edito da Le Scienze nel 2012. Ruotando intorno al costrutto di “assenza costitutiva”, cioè qualcosa di mancante preciso e specifico che è un attributo definitorio critico dei fenomeni “entenzionali” quali sono le funzioni, i pensieri, gli adattamenti, gli scopi e le esperienze soggettive, Deacon cerca le basi dell’inatteso, costitutivo delle distinzioni umane. L’ “entenzionalità”, secondo la sua proposta, indica il tratto distintivo di tutti i fenomeni che sono intrinsecamente incompleti, nel senso di essere in relazione a, costituiti da, o organizzati per realizzare, qualcosa di non intrinseco a essi. Quei fenomeni includono funzione, informazione, significato, riferimento, rappresentazione, agenzia, finalità, sensibilità, valore. Secondo Deacon i processi viventi e mentali dipendono da processi chimici e fisici ma presentano proprietà collettive non esibite dai processi non viventi e non mentali, e in quanto tali possono essere ritenuti emergenti. “Nessuna delle proprietà dinamiche associate alla vita e alla mente”, scrive Deacon a p. 618, “- come funzione, intenzione, rappresentazione e valore – esisteva fino a che l’universo non è maturato abbastanza da includere molecole complesse capaci di disporsi con configurazioni autogene”. Noi oggi siamo in grado di rappresentare noi stessi in una certa misura, come esito della nostra continua tensione a conoscere e a tendere, appunto, oltre ciò che siamo e sappiamo già, abitando la mancanza e l’incompletezza verso l’inatteso. La nostra competenza creativa è forse figlia di quella continua elaborazione, come ho provato a sostenere in Mente e bellezza. Arte creatività e innovazione, (Allemandi, Torino 2013, seconda edizione), un libro che deve molto al dialogo con Alfonso M. Iacono e Vittorio Gallese. Siamo anche abbastanza consapevoli di non avere in questo nostro cercare un fondamento esterno a noi stessi: sappiamo cioè che nessun accertamento di come stanno le cose può fare da base per accertare come le cose dovrebbero stare. Citando ancora Deacon: “Qui c’è qualcosa di più delle cose. C’è il modo in cui le cose sono organizzate e collegate ad altre cose. E c’è di più di quel che è attuale. C’è quel che potrebbe essere, quel che dovrebbe essere, quel che non può essere, quel che è possibile e quel che è impossibile” (p. 619).

In dialogo con Lucrezio e Blumenberg, Iacono ci aiuta a elaborare l’ansia di non essere, nel nostro conoscerci e conoscere, sulla terra ferma e a distanza sicura a guardare il naufragio. Non siamo sulla terra ferma e gli investimenti fatti per illuderci di avere un posto sicuro sono stati e sono molto costosi. Ammettere la verità, riconoscere che la distanza non è mai sicura e che siamo spettatori dei nostri stessi naufragi, esige l’elaborazione e l’attraversamento dell’ansia che ciò comporta. Il conforto e il coraggio che possono derivarci dal guardare in faccia la finta esternalità e superiorità, cercando di essere fondamento di noi stessi e dei limiti del nostro conoscerci e conoscere il mondo, potrebbero farci guadagnare un inedito legame estetico con il tutto di cui siamo parte.

Se la “vita è conoscenza”, come hanno mostrato Maturana e Varela, riferimenti di Iacono e di noi pochi che stiamo cercando di valorizzarne l’importante contributo, la rilevanza de L’evento e l’osservatore sta, tra l’altro, nella sua capacità di concorrere a ridefinire che cosa significa essere, ma soprattutto, divenire umani.

Per Maurizio, con affetto e gratitudine
10 marzo 2013