Ugo Morelli e Luca Mori, Il codice materno del potere, ETS, Pisa 2013. Una recensione di Gianpaolo Carbonetto

Hic et Nunc

Il codice materno del potere
(Udine, libreria Moderna, venerdì 22 novembre 2013)
(con Ugo Morelli)

Quante volte ci siamo chiesti come sarebbe stato il nostro mondo se in uno dei tanti bivi che ci propone la vita, avessimo scelto, consciamente o inconsciamente, una direzione diversa? Grosso modo è la stessa domanda che si pone questo libro, “Il codice materno del potere – Autorità, partecipazione, democrazia”, scritto da Ugo Morelli e da Luca Mori. Ma ci sono due importanti differenze: intanto la coscienza che le conseguenze di una scelta diversa sarebbero state planetarie e non individuali; e poi il fatto che questa possibilità di scelta non è irrimediabilmente passata, ma continua a riproporsi ogni giorno offrendoci prospettive inedite e foriere di speranze. Si parla della possibilità di scegliere finalmente una collaborazione e non un’opposizione tra generi, che sappia assommare i pregi di entrambi limitandone i difetti.
E i panorami che si aprono in questo caso sono inediti e spesso spiazzanti. Ugo Morelli, scienziato cognitivo, come sempre si lancia in coinvolgenti sfide intellettuali rifiutando compartimenti stagni ed esasperate specializzazioni e, anzi, approfitta al massimo del significato profondo di quel concetto di “Universitas” luogo di cultura che è nato per raccogliere in un unico contesto le più diverse conoscenze, per farle interagire, e per creare un punto di forza nelle ricerche che hanno come fulcro fondamentale l’essere umano, con la sua forza, le sue debolezze, la grande complessità, l’ineliminabile spinta alla ricerca della felicità, o, almeno, all’eliminazione dell’infelicità. E la conseguenza inevitabile è che ci induce a continuare a ragionare dentro di noi anche dopo la fine della lettura.
Questa volta, poi, il libro nasce da una serie di conversazioni e questo potrebbe far pensare a una catena di interventi quasi casuali, com’è di solito una conversazione, esposta a sollecitazioni improvvise e impreviste. E, invece, come ben mettono a fuoco anche la prefazione di Alfonso Maurizio Iacono e la postfazione di Carla Weber, ne esce un’opera logica, rigorosa e studiata a fondo, capace non soltanto di seguire una traccia, ma di approfondirla come si conviene per un argomento fondamentale nel nostro progresso sociale.
Come dicevo, questa volta a finire sotto la lente sono le differenze statistiche di indole e comportamento tra uomini e donne, un argomento sempre più dibattuto anche in riferimento ai drammi che quasi quotidianamente la cronaca ci porta sotto gli occhi. Morelli, però, osserva il tutto da un punto di vista inconsueto: quello delle conseguenze che la cattiva gestione di queste differenze ha causato nella nostra democrazia e, quindi, nella nostra società.
L’assunto di base, infatti, è la constatazione che l’inizio del ventunesimo secolo ha portato con sé la percezione della decadenza della democrazia e, contemporaneamente, di quella della figura del padre; nonché la necessità, per comprendere queste due crisi, di ripensare i fondamenti dell’autorità soprattutto perché per il momento si avverte soltanto la nostalgia di una verticalità del potere e un’ottusa attesa di nuovi leader, pastori, demagoghi e principi che possano ispirare la scelta nei momenti elettorali. Ugo Morelli sottolinea invece che in questa coincidenza di crisi la decadenza della democrazia segnala non tanto il bisogno di un protagonista che riassuma in sé le caratteristiche paterne, cioè di codici maschili che, in forme più o meno evidenti, non hanno mai smesso di esistere, quanto piuttosto la necessità dell’uso di un codice materno, dell’accoglienza, dell’ascolto, dell’accessibilità, della differenza e del senso del limite. E allora c’è un assoluto bisogno di comprendere meglio anche l’essenza del codice materno del potere.
Ovviamente non mi sogno di tentare un impossibile riassunto di un testo molto denso e molto arricchito con meditate sfumature del linguaggio, ma mi soffermerò su alcuni spunti e sulle considerazioni che mi hanno provocato.
Per prima cosa ritengo necessario almeno abbozzare il significato di codice materno e codice paterno espresso in questo libro. Se pater, infatti, rimanda fin dall’etimologia (dal sanscrito “pati”, che significa proteggere) al potere verticale del pastore e del signore che nutrono e proteggono i nuovi nati, con una spinta all’autonomia e al rispetto delle regole e delle norme che i capifamiglia stessi hanno fissato, mater (dal sanscrito “ma”, che vuol dire misurare) richiama al predisporre ordinatamente, al preparare e al formare i membri della famiglia stabilendo rapporti di affetto e rispetto tra le differenze.
Dovrebbero essere codici complementari e, invece, sono diventate differenze ghettizzanti nei confronti delle donne in una situazione che va avanti da millenni e che solo ultimamente sta faticosamente cambiando. La teoria classica sostiene che la sudditanza femminile derivi dalla caccia e dalle guerre della preistoria in cui la virtù più importante era la forza, vista come strumento per esercitare violenza. La donna non possedendo questa qualità, era costretta a sottomettersi e a eseguire compiti pur importanti, ma senza libertà.
Però questa teoria non può bastare a spiegare tutto e sarebbe drammatico accontentarsene perché è necessario cercar di capire non soltanto perché le donne hanno dovuto restare in stati di sudditanza per secoli, ma anche perché gli uomini si sono evoluti così male. Nell’antichità classica, infatti, non sono poche le donne che arrivano a posizioni degne sia nella vita sociale, sia in quella religiosa. Poi la situazione peggiora costantemente e, se quasi sempre è sofferta nel silenzio assoluto imposto da leggi e consuetudini, oltre che dai maschi stessi, ci sono delle eccezioni clamorose. Marie de Gournay, definita la “figlia spirituale di Montaigne, per esempio, scrive a cavallo tra il Cinque e il Seicento una serie di saggi nei quali si erge a difesa di quello che definisce «sesso malmenato». Marie sente come una profonda offesa l’allontanamento delle donne dagli altari, non perché sia particolarmente religiosa, ma perché lo avverte come simbolo assoluto di una subordinazione sessuale che, almeno in questo campo, non si è minimamente allentata neanche oggi. Lei ricorda che tutti gli esseri umani sono uguali perché tutti, allo stesso modo, sono figli di un «Dio che – lei sottolinea – non è né maschio, né femmina»; e si domanda come sia possibile che chi predica l’uguaglianza pratichi la diversità. Alla fine l’unica spiegazione che trova consiste nell’affermazione che «gli uomini si tengono strette tutte le forme di potere», mentre l’uguaglianza degli uomini e delle donne esiste per intelligenza e doti morali, anche se le teorie mediche e quelle religiose dell’epoca dicevano il contrario, e rivendica per le donne il diritto all’istruzione e alla partecipazione al potere in ambito religioso, politico e culturale, denunciando la miseria delle regole cui le donne sono asservite, pena il discredito sociale.
Credo che una delle cause del peggioramento, ma soprattutto dell’origine delle profonde diversità tra codice paterno e codice materno nei confronti del potere, derivi proprio dal diffondersi delle religioni monoteiste per le quali, almeno inizialmente, il centro di gravità è un Dio che non si deve offendere, più che un uomo che bisogna aiutare, e che, proprio per questo, si impegnano molto a proibire determinati comportamenti, ma molto meno si spendono nell’incitare e obbligare a fare il bene. L’esempio dei dieci comandamenti che cominciano in larghissima maggioranza con un “non” è già sufficiente per farci capire che a noi – credenti o meno non importa, perché i moduli sociali finiscono per incidere comunque – per sentirsi virtuosi basta non fare del male. E che questo atteggiamento di scarso impegno si proietta inconsciamente su tutte le nostre cose. Vale, per esempio, anche nel lavoro e forse parte della crisi anche economica che stiamo vivendo dipende pure da questo. Per la donna, invece, la situazione storica è sostanzialmente diversa in quanto il suo impegno coinvolge per gran parte del tempo direttamente i propri cari e con le persone a cui vuoi bene non basta non fare del male per sentirsi a posto: occorre fare il meglio possibile, insegnando più che ordinando, coinvolgendo più che separando. L’assurdità del sessismo, insomma, non ha soltanto motivazioni etiche, ma anche sociali ed economiche, nel senso più vasto del termine.
Sto parlando ovviamente basandomi su approssimazioni statistiche che sono importanti a patto di non perdere di vista il fatto che ognuno di noi è un mondo a se stante, che non necessariamente deve essere vicino alla media dei comportamenti umani. Ma la differenza tra “autoritas” e “potestas”, al di là delle sfumature individuali, è sicuramente avvertibile nel comportamento di tutti e questa percezione è forse la strada che ci permette di arrivare al passo successivo, alla sottrazione, cioè, del binomio “paterno” e “materno” ai limiti imposti dal riferimento al sesso o al genere e, cito, «alla sua utilizzazione per indagare le possibilità plurali dei codici del potere e dei codici affettivi», ricercando un equilibrio dinamico tra i due codici.
Di questa ricerca di connessione è emblematica anche la scelta dell’immagine di copertina: una riproduzione in bianco e nero di un quadro di Jalabert, “Edipo e Antigone”, in cui padre e figlia, due delle figure più tragiche della mitologia greca, che Sofocle ha saputo tratteggiare magistralmente, si allontanano tra il disprezzo della gente mentre l’uomo ormai cieco è sostenuto e aiutato dalla ancor giovane ragazza. Il primo, perseguitato da una profezia orrenda, non riesce a sottrarsi al destino e continua ad agire da solo, monolite destinato alla sconfitta, seguendo regole che sono più importanti della sua persona. La seconda, invece, pur adottando una severità a tutta prova nel rispetto delle regole, sa temperarle con il sentimento nei confronti del padre disprezzato da tutti e di un fratello bersaglio della crudeltà di un novello re.
Sembrano vicende irreali, eppure hanno molti addentellati concreti con la nostra vita perché è proprio il comportamento di Antigone, conscia delle tragedie che la circondano, a essere la base di un futuro ordinamento democratico in quanto è con il dialogo e con il linguaggio che diventa possibile la democrazia intesa come difficile amalgama di regole e cambiamenti, di giustizia e misericordia, di identificazioni e accoglienze, di forza e vulnerabilità, di conflitti e collaborazioni. E soprattutto come conseguenza di un’onestà individuale talmente forte da contaminare di sé l’intera comunità.
Se il codice paterno del potere porta spesso al conflitto, argomento già trattato splendidamente da Morelli, quello materno non lo esclude assolutamente, ma sa affrontarlo nella maniera giusta, senza irrigidimenti, però anche senza compromessi aprioristici. Perché il conflitto deve essere sempre al centro della democrazia che non corrisponde – come buona parte dei nostri politici pensa – al consenso. Anzi, il consenso è il contrario della partecipazione tanto da farci domandare se una democrazia rappresentativa, che vive per delega, può continuare a restare democrazia a lungo. Il codice materno poi è molto più capace di accettare il fatto che la progettazione partecipata, che è l’anima della democrazia, non sia la conquista di certezze, bensì la riduzione, senza eliminazione, di incertezze.
Perché lo scopo della politica non è quello di «uniformare la società a un ordine preesistente» bensì di elaborare nuove soluzioni, e quindi creare una nuova società. E qui mi ricollego a un altro libro scritto da Morelli, “Mente e bellezza”, per sottolineare, assieme a Iacono, l’importanza del rapporto tra politica e bellezza che oggi purtroppo non esiste e che, invece, dovrebbe essere strettissimo in quanto l’atto estetico altro non è che «una presa di distanza conflittuale con il mondo di cui ognuno di noi è parte» e che ognuno di noi vorrebbe diverso perché vorrebbe migliorarlo facendo vincere, nella loro eterna lotta, le forme potenziali sulle forme imitate. E, del resto, in quel libro Morelli sottolineava che «è opportuno e necessario condividere con Ian McEwan che “ogni forma di totalitarismo corrisponde di fatto a una crisi dell’immaginazione”».
Ne consegue direttamente che, in una visione in cui la parola “politica” riacquista il valore originale della sua etimologia, concepire un “io” senza un “noi” appare posticcio e irreale, poiché l’unico modo possibile di ridefinire l’idea di noi stessi è quello di porla in costante in rapporto con gli altri e con il mondo. E così facendo si pongono le basi per un vera e propria serie di piccoli o grandi salti evolutivi e con la continua ridefinizione di cosa significhi essere umani. È la conferma di quel “Panta rei os potamòs”, tutto scorre come un fiume, detto da Eraclito, perché è proprio in questo continuo cambiare che abbiamo la possibilità di mantenere la nostra caratteristica umana, quella di essere non soltanto sognatori, ma progettisti di sogni, di pensare all’utopia non come a un luogo che non esiste, ma a un luogo che non è stato ancora raggiunto.
È proprio in questo che il codice materno del potere, meno repressivo e più aperto al mutamento, diventa fondamentale non come defenestratore del codice paterno, ma come indispensabile complemento paritario che ci permetta di non vivere in un perenne presente che escluda qualsiasi aspirazione per il futuro.
Per questo l’importanza di svincolare le parole “paterno” e “materno” dai loro significati di sesso o di genere è enorme perché, in realtà, il codice materno appartiene anche ai padri, ai maschi, che però spesso lo silenziano e lo nascondono fino a negarlo e rimuoverlo. Ma è solo quel codice che può essere in grado di temperare la nostra aggressività, fino a renderla meno distruttiva, non solo nei confronti di altri esseri umani, ma pure della natura. È stato il sogno di Doris Lessing, premio Nobel morta da pochi giorni, un’icona del femminismo, che però ha sempre rifiutato di accettare affermazioni troppo semplificate sugli uomini e sulle donne, asserendo che il razzismo aprioristico poteva estendersi anche ai generi, se si poneva tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra.
Morelli e Mori, insomma, ci propongono l’immagine di un mondo in cui il potere sia esercitato non eliminando il codice paterno, ma fecondandolo con quello materno in una composizione inedita ed equilibrata che rinnovi e arricchisca entrambi i generi in una collaborazione di cui l’intero mondo ha assoluto bisogno.

Gianpaolo Carbonetto