Pensare lungo, pensare corto

Di Ugo Morelli.
Hic et Nunc

A volte ci si domanda per quali ragioni uno o molti consegnano il proprio potere a qualcun altro, nella vita e nel lavoro ad esempio. Una simile domanda è ancor più importante in politica e nei nostri sistemi di governo. Ci affidiamo a un capo nei gruppi sportivi, o nelle situazioni lavorative, così come ci affidiamo a chi governa nella nostra vita pubblica. Tutte le ricerche e gli esperimenti mostrano che abbiamo bisogno di contenimento e anche se non si stabilisce chi è il capo in un gruppo, molto presto la dinamica delle relazioni farà emergere qualcuno che, per qualche ragione, comincerà a contare più degli altri. La sua voce si sentirà più nitidamente e rapidamente gli altri inizieranno a parlare come lui. O come lei, se il capo è una donna, ma questo per ragioni note tende ad accadere meno spesso. Le ragioni della consegna a un altro sono molteplici e bisogna guardare soprattutto alla relazione per capire qualcosa di più. Non si capisce molto concentrando l’attenzione sulla figura e sul corpo del capo, come si tende a fare oggi, nella maggior parte dei casi. Ci possono essere ragioni tecniche: chi si afferma come capo ne sa più degli altri; o funzionali: in quel momento quella figura corrisponde a quello che serve nel gruppo o in quella particolare società; le ragioni possono essere carismatiche: una persona porta dei segni che essendo spesso abbastanza insondabili, si affermano e sono legittimati e riconosciuti dagli altri. Non tutti i capi divengono leader e, se accade, chi lo diventa andrà avanti seguito dagli altri. In queste dinamiche, nella contemporaneità e anche nelle esperienze locali di democrazia come la nostra, il vuoto di senso e di prospettiva aggiunge un ulteriore fattore di risposta alla domanda sul perché consegniamo ad un altro la nostra seppur piccola quota di potere. Che poi piccola non è perché, messa insieme a quella di altri, fa il potere tout court., il suo sostegno, la sua legittimazione, anche indipendentemente dalla volontà iniziale di chi quella delega ha espresso. E questo è uno dei principali problemi. Quella ragione va cercata nella nostra prevalente disposizione mentale a “pensare corto”. Così come noi possiamo pensare “veloce” o “lento”, secondo quanto ci ha mostrato il premio Nobel Daniel Kahneman, allo stesso modo possiamo pensare “lungo” o “corto”. Lo comprova la ricerca, ma ancor più l’esperienza. Il fatto è che se pensiamo veloce, ricorriamo cioè all’abitudine, per aprire la porta o accendere il computer, ne traiamo vantaggi; se lo facciamo quando sarebbe necessario riflettere, possiamo incappare in errori costosi. Pensare “corto” per scegliere la pizzeria può comportare, al limite, una digestione difficile. Non pensare “lungo” per scegliere un capo che ci governa può costare caro. In noi prevale però la propensione a pensare “corto”, soprattutto in situazioni critiche e, allora, proposte di “concretezza”, di “immediatezza”, di “soluzioni pratiche”, risultano magnetiche per le nostre menti. Se qualcuno le fa è molto probabile che gli andiamo dietro. Se poi quelle proposte sono ammantate di “nuovo” il loro magnetismo aumenta. Esiste un rapporto impegnativo e costoso tra la riflessione, il tempo necessario, il pensare “lungo” e la democrazia. Dalla cura di quel rapporto possono derivare attenzioni necessarie alle conseguenze delle scelte. Varrebbe la pena, anche da noi, tenerne conto.