Gianpaolo Carbonetto su Erba Cedra e segreti amori di Ugo Morelli

Hic et Nunc

A prima vista potrebbe sembrare che la presentazione del libro “Erba cedra e segreti amori”, nella chiesa del borgo medievale di Villafredda, nell’ambito della quarta “Festa di piante, di storie, di mostre”, sia legata soprattutto al nome, inserito nel titolo, Di quell’erba, più conosciuta come Cedronella, che ben si inserisce nel tripudio di verde e colori che rallegra questi antichi cortili. In parte è così, ma gli addentellati tra la terra e la storia di questo romanzo, che si radica in Irpinia, la terra di Morelli, e quelle in cui viviamo noi sono molto più solidi e numerosi.

Il professor Ugo Morelli, studioso di scienze cognitive, ha scritto tantissimi libri di saggistica, ma questo, edito da Zandonai, rappresenta la sua prima avventura nel mondo della narrativa in cui inevitabilmente finisce per portare con sé molti dei suoi abituali meccanismi descrittivi che, però, non vanno a stravolgere la scorrevolezza che è caratteristica precipua del romanzo, ma vi si assommano creando tanti livelli di lettura fondamentali nella sostanza di una narrazione che attraversa vite e storie degli anni che seguono i due più recenti terremoti in Irpinia: quello del 1962, di cui non si ricorda praticamente più nessuno, e quello del 1980, più violento e capace di radere al suolo non soltanto gli edifici, ma anche le abitudini, le tradizioni, i vincoli sociali. E la memoria, appunto. Tanto che nella narrazione, tragedie, passioni e amori sono sempre illuminati dalla crepuscolare e incerta luce della fine di un mondo e dell’inizio di un altro che inevitabilmente viene guardato con sospetto, ma che è ancora tutto da scoprire, sia pure con strumenti cognitivi diversi da quelli usati fino a quello spartiacque temporale segnato profondamente dallo scuotersi della terra.

Morelli, diventando narratore, non abdica al suo ruolo di ragionatore e, così, il suo è un libro che si lascia leggere facilmente, ma merita grande attenzione perché più che un romanzo è un arazzo che descrive un’intera civiltà che, se non muore, almeno muta profondamente; un arazzo da cui esce un quadro unitario che, però, se è guardato con attenzione, lascia intravvedere l’ordito delle tradizioni, delle convinzioni e delle abitudini, pur intrecciati con gli infiniti fili della trama delle vite dei tanti personaggi, tutti diversi tra loro, ma anche uniti nel creare un tessuto che fa vedere la realtà di un mondo. Tutti insieme, insomma, ma contemporaneamente tutti ben distinti anche perché vivono in un paese, in cui tutto ancora si vede, anche la cosa più minuta e nascosta; in cui non è ancora arrivato l’indistinto anonimato della città.

È difficile parlare di una sola trama, se non appoggiandosi allo scorrere della vita di Giovannina, una donna libera e seducente che nell’Irpinia degli anni Cinquanta indirizza, con la sua cosciente bellezza e con la sua libertà, i desideri e le passioni nascoste di un piccolo borgo rurale. È attraverso il suo sguardo, potente e intrigante – «Gli occhi – dice - sono sempre stati la mia fortuna. Con gli occhi si può comandare il mondo» – che prende gradatamente forma un paesaggio umano, molto legato a quello fisico, con una lunga serie di protagonisti e figuranti: il Padrone di tutte le cose, la Zingara, il ciabattino, lo zio prete, il Saputo che proprio da qui arriva, la sfortunata e in realtà fortunatissima Antonietta e tanti altri. Tutti ammassati in un mondo che sta per finire, ma non sa ancora che quel momento sta avvicinandosi e che aprirà la strada alle tante e non sempre apprezzabili forme della modernità.

Morelli, sempre attento a privilegiare punti di vista inconsueti, non per gusto di originalità, ma per intima esigenza di scrutare aspetti che di solito restano in ombra, ha pensato e curato a lungo questo suo frutto letterario, non soltanto per poter palesare ed esprimere una memoria che per tutti noi, se sappiamo guardarci dentro, è uno scrigno di insegnamenti, oltre che di sentimenti, ma anche e soprattutto per l’urgenza di poter esprimere molte sue convinzioni che si estrinsecano in pensieri e concetti che la narrativa permette di presentare con un’autorevolezza che la scienza non consentirebbe. Intendiamoci, non sono affermazioni false o incongrue: semplicemente non possono essere supportate da conferme sperimentali, ma non per questo perdono di dignità. Anzi, spalancano ampi pertugi attraverso i quali tentare di comprendere finalmente anche cose che riguardano noi, che si collocano in tempi e territori diversi, che sono altre trame intrecciate ad altri orditi, ma che possono mantenere quel tanto di universalità che contraddistingue l’intero nostro mondo sempre ammesso che il baricentro resti l’essere umano, se è capace di restare tale pur stravolgendo il proprio modo di essere; diventando muratore, per esempio, e cessando di essere contadino; contento di veder crescere qualcosa, e mesto nel notare l’abbandono della terra.

C’è tanta differenza tra l’Irpinia a cavallo dei due terremoti e il Friuli a cavallo del sisma del 1976? Potrebbe anche sembrare di sì, ma, se si rifiutano i preconcetti di maniera e si guarda oltre le apparenze, si vede che tutta questa diversità nelle cose di sostanza non c’è. «Così come non capimmo niente - scrive Morelli – di cos’era un terremoto, ancor più oscure furono le cose che accaddero dopo». E poi, più avanti, a illuminare senza mezze tinte il concetto, specifica: «Il frastuono distruttivo che ha invaso quel mondo e sepolto quelle pietre non ha neppure la capacità, che toglie il respiro, del terremoto; quella forza di natura con cui la terra ti si rivolta contro. No; volgare e rozzo, il movimento delle ruspe ha calpestato senza vedere, ha distrutto con foga, ha disintegrato un mondo senza neppure accorgersene».

Si potrebbe presupporre che la differenza sia enorme. Laggiù case ancora sbocconcellate, o tramutate in cumuli di macerie ormai diventate quasi collinette ricoperte dal naturale accumulo di terra e dalla nascita di erbe di ogni tipo, o, ancora, in piedi, ma clamorosamente non finite, o per mancanza di denaro, o per carenza di orgoglio. Qui edifici curati, ben dipinti, spesso ricostruiti com’erano e come si sarebbe voluto fossero durati per sempre. Apparenze diversissime, insomma. Ma la sostanza del tessuto sociale apparenta Irpinia e Friuli, come anche Abruzzo, Sicilia, Umbria, Marche, Emilia, Liguria; ogni luogo dove l’infierire della natura ha creato una cesura tra un prima e un dopo. Mai si è riusciti a proseguire senza soluzioni di continuità. Sempre la ripresa è avvenuta su basi diverse, anche perché molta gente non c’era più, o perché strappata drammaticamente alla vita, o in quanto allontanata dalla necessità di trovare sopravvivenze più facili in un teorico progetto che quasi sempre è presentato come temporaneo e quasi sempre diventato, invece, definitivo.

Non serve andare in Irpinia per capire come il mondo cambi con maggiore velocità dopo il trauma di un sisma. Basta guardare i nostri paesi del Friuli e della Carnia per rendersi conto che molti punti di aggregazione sono scomparsi, o sono profondamente cambiati. E già questo basterebbe per stravolgere una civiltà, vocabolo che in sé non lascia trasparire né pregi, né difetti, ma che, a prescindere dal suo reale valore, possiede una forza attrattiva che continua anche quando quella massa che dovrebbe essere fondamento di una specie di forza attrattiva di gravità, si è consunta tanto da non essere più apprezzabile, se non nelle sue forme esteriori fatte di rimpianti e di involontarie, ma efficacissime selezioni ideali che fanno sparire le cose brutte e fanno rilucere quelle belle.

In “Erba cedra e segreti amori”, Morelli rifiuta questa selezione ed effettua uno scavo nella memoria rievocando quel passato che spesso gode, nella nostra mente, di un credito eccessivo. Lo fa usando parole e figure reali che nulla intendono edulcorare.

E per farlo usa tutte le armi a sua disposizione, tra cui, in primis, quella di un linguaggio ricco di dialettismi, sia nella scelta delle parole, sia del tessuto sintattico di alcune frasi. A prima vista potrebbe sembrare un espediente simile a quello usato da Andrea Camilleri nei suoi romanzi con il commissario Montalbano, ma non soltanto in quelli. In realtà le finalità sono diametralmente opposte. Mentre Camilleri, infatti, inventa dei vocaboli per regalare sonorità siciliane, suggestive ma finte, al lettore, Morelli riporta alla luce, invece, parole esistenti, pur se da molti dimenticate, per ridare sostanza evocativa reale alla propria memoria irpina.

E si avventura, l’autore, anche sul sottile crinale di una sfida difficile e inconsueta: quella di entrare, lui, uomo, in un io narrante femminile. In una donna che si avventura a raccontare la cosa che più divide donne e uomini, sia dal punto di vista fisico, sia da quello psicologico: il sesso, visto non come esercizio pruriginoso da offrire al lettore, ma come chiave di volta essenziale per capire un intero mondo, un’intera cultura.

Perché nel panorama che Morelli ci descrive, il rapporto tra uomo e donna, al di là del fatto puramente carnale, è sempre centrale, o come elemento di subordinazione e spesso di silente e latente resistenza, se non di rivolta, o come estrinsecazione del potere attraverso il sesso in una specie di fil rouge che attraversa l’intera narrazione con una gamma infinita di sfumature, convenzioni sociali e sottolineature. Quello narrato dall’autore attraverso la voce della protagonista è un sesso fatto di carne e non di elucubrazioni, di esaltazioni travolgenti più che di sensazioni, di desideri da rendere comunque evidenti al diretto interessato pur nascondendoli a tutti gli altri, di ragionamenti quasi istintivi, ma non per questo meno stringenti ed efficaci di piani elaborati a tavolino. È passione e calcolo insieme.

È il sesso che, in un universo di povertà diffusa resta l’unica ricchezza a disposizione di tutti; che in un mondo di enormi disparità funge da unica leva che può riuscire a riequilibrare almeno in parte, pur se piccola, lo strapotere di chi ha e chi può con la debolezza di chi non ha e non può. Che addirittura può mettere in dubbio la predominanza del maschio sulla femmina perché se il sesso è spesso visto ufficialmente come strumento e dimostrazione di potere violento e ottuso del cosiddetto sesso forte su quello debole, in realtà, forse addirittura più spesso, diventa sostanzialmente un momento di calcolata astuzia, pur in un girone infernale nel quale il male non è quasi mai evitabile, ma rimane almeno moderabile. Siamo in un mondo in cui il nascere maschio coincide con l’avere un ruolo dominante, mentre le donne, di qualsiasi estrazione sociale, sono in genere angariate e costrette a figliare perché i giovani sostituiscano gli anziani e la roba transiti di generazione in generazione, senza che nulla cambi. Eppure in questo mondo è il ruolo della donna a essere assolutamente centrale, non solo nella famiglia, ma addirittura, conseguentemente, nel potere.

E anche questo, sia pure con aspetti diversi, fa venire in mente altri parallelismi tra sud e nord. Perché anche qui, a dispetto di un maschilismo a prima vista imperante, il vero potere nella famiglia è sempre stato in mano alle donne; magari perché l’emigrazione aveva allontanato dal Friuli tantissimi uomini che tornavano a casa soltanto di tanto in tanto, magari perché comunque l’amministrazione di una casa restava in mano alle donne. Sta di fatto che, pur con sistemi, realtà ed espedienti diversi, dappertutto la guida reale delle famiglie – e quindi del mondo – non è stato in mano al cosiddetto sesso dominante. E questo sia nel bene, sia nel male di percorsi educativi che, evidentemente, visto il mondo in cui viviamo, avrebbero potuto e dovuto essere migliori.

Inoltre, al di là dei dubbi che ci procura la questione uomo-donna, dovremmo pur chiederci anche perché avere nostalgia di quel mondo contadino in cui alcuni erano destinati a interpretare la parte del debole, del sottomesso? Forse perché ora questo triste destino non è stato assolutamente cancellato, ma sembra addirittura essersi allargato. Forse perché, nonostante tutte le violenze e le umanissime invidie indotte dalla miseria, resta evidente un tesoro di valori positivi vissuti concretamente da sempre. Una solidarietà nei fatti, un’unione con gli altri che rende sopportabile la vita.

In tutto il libro si parla del passato; eppure si guarda al futuro, a quel futuro che si sta plasmando proprio sotto i nostri occhi, in un lavoro di trasformazione di cui non ci sentiamo responsabili, ma al quale partecipiamo attivamente, sia se decidiamo di agire, sia – ed è peggio – se ci rifiutiamo di agire. Nella narrazione di Morelli non c’è nostalgia, ma è ben vivo il rimpianto che nasce con la consapevolezza che nella storia l’uomo non ha saputo scegliere cosa conservare e cosa scartare; che, nel rendersi conto che qualcosa di fondamentale non andava, ha finito per gettare via tutto; anche quello che, invece, sarebbe stato da conservare.

È il rimpianto di un’intera specie che si allarga ben oltre i confini dell’Irpinia e anche del Friuli per abbracciare l’intero mondo perché questo meccanismo di eliminazione indiscriminata e poco riflessiva di ciò che è stato, per dare spazio alle novità, è accaduto e accade a ogni latitudine. È un rimpianto al quale pochi riescono a sottrarsi con la forza che loro deriva dalla convinzione di aver saputo conservare, da quel passato, almeno un grano di salvezza. Tra questi, la chiacchieratissima Giovannina – e quindi l’autore stesso – che, pur nella tristezza di chi si sente ormai estraneo a un mondo molto, troppo cambiato, dice: «Non sopporto sentir dire che qui le cose vanno così. Non l’ho mai sopportato. Il pozzo, alle cui acque fresche ci siamo dissetati tutti, oggi è completamente secco. È diventata secca pure l’erba cedra che cresceva tra le pietre dei muri intorno ai pozzi e di quelle acque si alimentava… Un’edera impietosa, che nessuno taglia, ricopre il luogo e la memoria». E questo messaggio sembra anche arrivare dalla copertina che raffigura un volto femminile bello, anche se seminascosto, truccato con cura, anche se la pittura è ormai profondamente scrostata.

Eppure, pur in questa sensazione di inadeguatezza, spunta luminosa la certezza di avere seguito e tracciato una strada giusta: «Il piacere che mi ha accompagnato tutta la vita, per darlo e riceverlo bisogna essere in due». E questo riguarda non soltanto il piacere, e non necessariamente nella condivisione delle cose belle ci si deve limitare a essere soltanto in due. Lo vediamo nei faticosi tentativi di spezzare le solitudini e di recuperare quelle comunità e quelle solidarietà che oggi sono cercate soprattutto dai giovani e da alcuni vecchi che non si sono mai rassegnati all’andazzo, ma che, sia pure lentamente, stanno contagiando sempre più persone.

In quel «bisogna essere in due» balugina una preziosa traccia di ottimismo che permane pur nella sensazione raggelante di un presente talmente ipertrofico da non far più pensare al futuro; pur nella consapevolezza che stiamo vivendo una mutazione antropologica pericolosissima perché, visto che non la governiamo, non sappiamo dove ci porterà. Pur se lo sguardo di Morelli è scientificamente spietato nel raccontare quel Meridione che ama: « Realizzare su progetto un simile sfacelo sarebbe probabilmente impossibile». E questo vale anche per l’intera Italia.

Eppure la strada per uscire da questa situazione, per ovviare alla fragilità del mondo e dei suoi abitanti, è tracciata nettamente. Morelli in questa sua opera vuole sottolineare che la vergogna non deve prevalere mai sui sentimenti, che non è lecito né negare, né coprire, che la bellezza è nella verità, nel coraggio, nella libertà, nell’amore che riscalda ognuno di noi. Che è necessario riscoprire senza infingimenti la nostra storia; e capirla. Perché soltanto così sarà alimentata quella cultura che, impastata inestricabilmente con l’etica, è l’unica base accettabile di una politica finalmente attenta alla sua etimologia; al bene della polis.

Erba cedra e segreti amori