Linguaggio e arti sono incarnati

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc

Scrive Chiara Frugoni in apertura del suo ultimo, importante lavoro, un vero e proprio viatico nell’arte e nell’iconografia medioevale:

“Nel Medioevo, diciamo per semplificare almeno fino a tutto il XII secolo, il viso dei personaggi non esprime i sentimenti e i moti interiori dell’animo, demandati al linguaggio dei gesti e delle mani, quasi il corpo parlasse. Come vedremo, quanto appena affermato rimane vero in molti casi anche nei secoli seguenti” [C. Frugoni, La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Einaudi, Torino 2010; p. 3].

Sono un documento decisivo, le poche righe di Chiara Frugoni qui sopra riportate, per cercare di comprendere come si sia affermata una visione della nostra esperienza e l’implicita convinzione di cosa significhi essere umani, che ci scorre nel nostro senso comune ed è pervasiva nel nostro presente, soprattutto quando parliamo di arte. Potremmo sostenere paradossalmente che gli artisti medioevali avevano capito molte cose, molte più di noi. “Quasi il corpo parlasse”, scrive Frugoni. È proprio quello che fa, in base a quanto veniamo scoprendo con le ricerche più recenti. Il linguaggio dei gesti e delle mani, lungi dall’essere ridotto alla residuale categoria di “linguaggio non-verbale”, è tutt’uno con il nostro linguaggio verbale, a consentire l’emergenza della nostra espressione incarnata, in cui il corpo e il movimento sono cruciali. Anzi. È persino riduttivo, e per molti aspetti improprio, dire che sono cruciali, in quanto appare sempre più evidente che linguaggio ed espressione estetica, creatività ed esperienza estetica non sono “cose” che entrano in noi solo attraverso gli occhi, che sarebbero lo “specchio dell’anima”, ma perché vi sia linguaggio, creazione e fruizione artistica, è necessaria la risonanza relazionale tra individuo, altri individui e mondo. È necessaria una risonanza che ha le caratteristiche della struttura che connette, come la chiamava Gregory Bateson. Quella risonanza è incarnata. Noi siamo le relazioni che viviamo e diveniamo le esperienze che facciamo. Il corpo parla e non lo fa solo con la parte alta, la testa, e con la bocca. Noi creiamo e non lo facciamo solo con la mente. Noi pensiamo, ma senza il movimento non avremmo avuto accesso e non accederemmo al pensiero.

La nostra creatività è incarnata, il nostro linguaggio è incarnato e le nostre espressioni estetiche lo sono. Si tratta di nostre espressioni corporee-relazionali-sociali allo stesso tempo, in quanto noi siamo animali naturalculturali. Sono la nostra storia e la nostra vita presente a dircelo.

Ci sono due ostacoli, tra gli altri, come abbiamo più volte ricordato, alla possibilità di appropriarsi di questa nostra distinzione di specie: il dualismo mente – corpo e il riduzionismo deterministico; due vere e proprie “certezze” del nostro modo di pensare e di pensarci. Se ci chiediamo come si sono affermate quelle certezze possiamo però svelare lo stato delle cose. L’autoelevazione semantica, il processo che ci ha portato ad avere una coscienza di second’ordine e a pensare di pensare, a sapere di sapere, a sentire di sentire, è anche, probabilmente, alla base della nostra “produzione di separatezza” tra mente e corpo. L’entità pensante è la stessa entità pensata. Un doppio circuito che richiede un investimento emotivo-cognitivo maggiore e più impegnativo che separare l’entità pensante, causa del pensiero, dall’effetto pensato, oggetto del pensiero. Una espressione del “pensiero primitivo” e reificante che rappresenta tanta parte del modo di funzionare della nostra mente relazionale incarnata. La nostra mente relazionale incarnata è anche immersa in una cultura e in un contesto e quel contesto ha favorito la separatezza tra parte “alta” e parte “bassa” della nostra esistenza come esseri umani. Pensare per cause ed effetti, inoltre, e “localizzare” la causa è ciò che facciamo più immediatamente, oltre ad essere orientati principalmente alla conferma piuttosto che all’innovazione. Se ciò può andare bene per gli aspetti deterministici dei processi non può essere impunemente esteso ai fenomeni e ai processi in cui non è la località della funzione il criterio costitutivo, ma le proprietà emergenti e le loro dinamiche complesse, come nelle espressioni delle menti relazionali incarnate e risuonanti. In quelle dinamiche esprimiamo la nostra possibilità di non coincidere con noi stessi e di creare o di fruire delle risonanze che ogni creazione ci può far sentire.