Semina senza seminatori

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

Di tutte le narrazioni riguardanti l’Expo di Milano la più carente riguarda il lavoro. Qualche polemica sull’indisponibilità al precariato e molti silenzi sui risvolti occupazionali dell’evento. E del resto anche il primo maggio pare essere trascorso non proprio con un’elevata attenzione da parte dei più, mentre la disoccupazione cresce e quella giovanile esplode di nuovo. Se una delle questioni cruciali dell’Expo è la sostenibilità di questo modello di sviluppo dominante, non solo la cosa riguarda da vicino il nostro sistema sociale ed economico locale, ma anche le implicazioni della sostenibilità. Quest’ultima ha un senso se riesce a porre al centro il fatto che l’economia si deve ricongiungere con la vivibilità e che dobbiamo tendere a un’economia per l’uomo integrata nel sistema vivente, uscendo da una situazione in cui sono l’uomo e il sistema vivente ad essere assoggettati al modello economico dominante. Una delle misure della sostenibilità economica pare proprio la rilevanza lavorativa e occupazionale delle scelte, in base al fatto, cioè, che si crei un’economia appropriata a dare dignità alle persone mediante opportunità lavorative corrispondenti alle capacità. In tal senso vale la pena chiedersi: ma è sostenibile la sostenibilità? Una domanda che vale in almeno un duplice senso: se sia possibile sostenere l’attendibilità di un costrutto teorico come la sostenibilità; e se sia possibile realizzare effettivamente una prassi sostenibile nell’evoluzione delle società e delle economie umane, che assuma il lavoro e la dignità umana come misura. È l’associazione della sostenibilità allo sviluppo, forse, il problema principale. Una ripresa senza occupazione, ad esempio, pare molto probabile oggi e forse è già in atto. Il modello di sviluppo dominante, basato sul principio di accelerazione costante e progressiva, ha iniziato a mostrare evidenti segni di esclusione, alienazione ed esigenze di individuare limiti. È apparso soprattutto evidente come senza il riconoscimento e la definizione di limiti non vi sia sostenibilità possibile. I costi principali sono stati e sono ambientali e lavoristici, con l’esclusione di parti di intere generazioni dall’inserimento lavorativo dignitoso.

Una prassi appropriata basata su un riconoscimento condiviso dei limiti dello sviluppo deve, perciò tenere conto di almeno tre livelli della sostenibilità così intesa:

  • il livello degli effetti individuali, per cui i ritmi dell’accelerazione e dell’alienazione, oggi risultano difficili da sostenere, soprattutto in termini di precarizzazione e di esclusione lavorativa;

  • il livello istituzionale e collettivo, dove si giocano decisioni rilevanti per la definizione e il ri-orientamento di un modello di sviluppo appropriato, verso un’economia che produca lavoro di qualità ed occupazione e non esclusione ed emarginazione;

  • il livello biologico ed evolutivo planetario, rispetto al quale una coscienza di specie e una coscienza di essere parte del sistema vivente richiedono un potente investimento educativo e formativo.

Perché la sostenibilità sia sostenibile pare necessario connetterla all’appropriatezza delle scelte e alla responsabilità del limite come condizioni di effettive possibilità. Ma soprattutto a un’economia per l’uomo e per il sistema vivente, capace di produrre opportunità di lavoro e dignità umana, per evitare che vi sia semina senza seminatori.