Scene di ordinario razzismo

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

Sull’autobus urbano numero quattro, qualche giorno fa. Salgono due controllori. Hanno regolari distintivi dell’azienda dei trasporti e con fare gentile iniziano a svolgere il loro compito chiedendo i biglietti o gli abbonamenti ai passeggeri. Hanno una peculiarità: la loro pelle è nera. Non per il sole schiacciante di questo agosto. No. Sono proprio neri. Lo sconcerto monta all’improvviso e tra i passeggeri si accende una ridda di ipotesi, il cui interesse per capire noi stessi in questo nostro tempo è davvero rilevante. Si tratta di uno scherzo, sussurra uno al proprio vicino. E però l’autista non dice niente, risponde l’altro, allora sono veri. Meglio questo che vadano a rubare, dice un altro, con atteggiamento rassegnato. Adesso vengono i neri a controllare noi, infierisce una donna, davvero non si capisce più niente. Ma dove siamo arrivati, la consola un vicino accondiscendente. Speriamo che siano almeno figli adottivi di trentini, dice un altro, consegnandosi ad una prospettiva che potrebbe mitigare lo sconcerto. I controllori, finito il proprio lavoro, scendono ad una fermata per attendere l’autobus successivo. Sul quale è verosimile immaginare che semineranno uno sconcerto simile. Il razzismo corre nell’ordinarietà della vita quotidiana e poche cose come il linguaggio di ogni giorno ne testimoniano la subdola presenza. Se un bambino sudato dice, ingenuamente: puzzo come un marocchino, il suo immaginario, le sue relazioni, la sua rappresentazione dell’altro mostrano il clima e gli orientamenti taciti, e perciò più potenti e penetranti, in cui quel bambino vive e si forma. Il cerchio si chiude su noi stessi e ci seppellisce in un mare di vergogna.