Perchè ci innamoriamo di Marilyn Monroe?

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

Dopo averci aiutato a riconoscere che siamo legati gli uni agli altri in una intersoggettività naturale, grazie ai neuroni specchio che ci rendono capaci di sentire e comprendere quello che sentono gli altri e quello che fanno prima che ce lo dicano con le parole, Vittorio Gallese che della scoperta dei neuroni specchio è uno dei principali protagonisti con i suoi colleghi dell’Università di Parma, ci aiuta, insieme a Michele Guerra, teorico del cinema, a comprendere quello che ci accade nell’esperienza cinematografica.

Le implicazioni della ricerca di Gallese e Guerra si estendono ben oltre l’esperienza cinematografica e riguardano il nostro rapporto con la finzione e l’immaginazione.

Anche per questi motivi è stato organizzato dal Muse – Museo delle Scienze di Trento un incontro con gli autori della ricerca che si terrà venerdì 5 febbraio alle 20.30. Quei risultati sono inoltre riportati in un libro, Lo Schermo Empatico, pubblicato da Raffaello Cortina Editore.

Prof. Gallese, perché ci innamoriamo di Marilyn Monroe?
Con questa ricerca cerchiamo di sederci in sala con gli spettatori per cogliere che cosa evocano in ognuno di noi le immagini cinematografiche. Ci chiediamo insomma come e perché funziona il cinema.
Studiando la questione abbiamo verificato che si sperimenta un vero e proprio processo di immedesimazione che ci porta a vivere delle emozioni vere e non solo delle emozioni finte.
Quello che accade è che siamo collocati in un gioco del “tutto finto”/ “tutto vero” in cui si perde la differenza fra finzione e realtà, fra cosiddetto mondo reale e immaginazione.
Nel caso di Marylin Monroe è necessario aggiungere che non solo ci immedesimiamo con il personaggio ma anche con la sua icona e con tutto quello che l’arte e il mito ci sottopongono all’attenzione.

Qual è la chiave di lettura che privilegiate per approfondire il rapporto fra la ricerca neuroscientifica e l’esperienza cinematografica?
Abbiamo utilizzato l’approccio messo a punto in questi anni di ricerca che va sotto il nome di simulazione incarnata, quel particolare processo che ci caratterizza e che fa di noi degli esseri fondati nell’intersoggettività. Nella nostra relazione con gli altri e con il mondo ci individuiamo risuonando con gli altri e costruendo noi stessi in un’incessante circolarità basata sulla modulazione reciproca.
Questa prospettiva si combina nel nostro lavoro con gli studi teorici sul cinema e con la valenza estetica dei film, cercando di comprendere che cosa accade nella nostra esperienza nel momento in cui viviamo contemporaneamente una situazione di finzione che produce emozioni reali.

A cinema stiamo fermi, seduti e al buio. Uno degli aspetti più rilevanti della vostra ricerca è il valore del movimento nei processi cognitivi ed emozionali. Come si esprime la combinazione tra questi aspetti apparentemente paradossali?
Noi facciamo esperienza di noi stessi e del mondo e questa è la principale differenza con un robot o con una macchina, per quanto evoluti essi possano essere.
Siamo soliti partire dall’idea che se si sta fermi non ci si muove. In realtà non è così, perché anche quando siamo fermi il cervello che ci fa muovere non è fermo per nulla ma si attiva come se ci muovessimo. Grazie al nostro sistema motorio le immagini in movimento ci muovono e smuovono.
Il nostro sistema senso-motorio si attiva come quando siamo in movimento. Questo non vuol dire che non ci sia anche una comprensione cognitiva e linguistica degli altri e del mondo, ma il movimento è alla base della nostra capacità di conoscerci, conoscere gli altri e conoscere il mondo. Siamo un corpo in movimento che si individua nella relazione con gli altri, comprese le relazioni con gli altri immaginari della finzione cinematografica.

Possiamo sostenere allora l’esistenza di un rapporto tra la condizione particolare dell’essere a cinema e l’esperienza emozionale che il cinema ci suscita?
Tra tutte le considerazioni che si possono fare in proposito ce n’è una in particolare che merita di essere evidenziata. La condizione di motilità ridotta o vincolata che viviamo a cinema, richiama molto da vicino la situazione di neotenia che viviamo nel primo periodo della nostra vita. Noi esseri umani nasciamo in una situazione in cui abbiamo bisogno di un lungo periodo di accudimento per diventare autonomi e il nostro stesso cervello si sviluppa completamente in un lungo periodo, tanto che fino a vent’anni non ne abbiamo lo sviluppo completo. Questo significa che in una condizione di motilità ridotta, noi, nei primi anni, è come se fossimo a cinema rispetto al mondo. Lo comprendiamo, lo apprendiamo, lo facciamo nostro, in situazioni di ridotta o parziale motilità.
La stessa cosa per certi aspetti accade durante il sogno: in condizioni di immobilità facciamo profonde esperienze emozionali.
Si stabilisce quindi un rapporto fra inibizione muscolare ed eccitazione emotiva che produce la liberazione di importanti meccanismi generativi. Qualcosa del genere accade nell’esperienza cinematografica dove una situazione di immobilità favorisce profonde esperienze emozionali, pur di fronte a situazioni di finzione o immaginative.