Ugo Morelli alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Bologna 13 aprile 2016

Mano, mente, macchina

Di Ugo Morelli.


Hic et Nunc

In principio fu il movimento, all’origine del pensiero umano. È perché ci muoviamo che pensiamo e l’atto motorio è alla base della nostra conoscenza e, naturalmente, della nostra azione nel mondo. La nostra tensione verso le cose, da quando siamo esseri simbolici dotati di linguaggio, mobilita il sistema corpo-cervello-mente e fa di noi una specie creativa. Siamo quelli che non solo tendono a non coincidere con quello che esiste già, ma che compongono e ricompongono in modi almeno in parte originale i repertori del mondo. Anche se facciamo un uso parziale e limitato di questa nostra capacità specie-specifica. La creatività umana sembra trarre origine, come ha mostrato ad esempio Donald Winnicott, dall’informe, da qualcosa che attende di essere creato per assumere vitalità e senso di realtà. L’origine della creatività appare come una motivazione autonoma di cui l’evoluzione ha dotato gli esseri umani. La tensione creativa, insomma, si propone come un costante movimento verso il mondo in cui il corpo è coinvolto e la mano ne diventa la protagonista principale. Nella funzione manipolativa e trasformativa della mano risiede, infatti, l’emergere stesso del gesto creativo e i segni e gli artefatti appaiono come proiezioni del mondo interno che noi lasciamo emergere nel mondo esterno. Sia nella simulazione che nella creazione di artefatti, il gioco della mano con il mondo è un’attività che ha un immediato ritorno funzionale, come nel caso dei prodotti strumentali, e un ritorno simbolico, come nel caso dell’arte. Eppure la manipolazione del mondo, quella ripetizione con aggiustamenti che si succedono, o con discontinuità improvvise, con catene di piccole o grandi differenze, inventa di fatto il mondo e lo stesso inventore. Nella relazione tra esseri umani e mondo si è da sempre inserita la tecnica, un’espressione e un prolungamento della capacità umana che fa di noi degli esseri naturalmente tecnologici, capaci cioè di combinare tecnica e pensiero. Gli artefatti macchinici sono forme più o meno complesse di concretizzazione della nostra capacità tecnologica. Ci interessa considerare qui l’evoluzione del rapporto mano, mente, macchina, fino ad oggi, e alcune importanti implicazioni del presente. All’inizio abbiamo vissuto, in base alle informazioni da fonti storiche, situazioni prevalenti in cui la nostra mente è stata al servizio della mano. La macchina è stata in quel tempo un supporto decisivo per il lavoro umano, tendenzialmente pesante. Il suo ingombro la rendeva rigida, seppur decisiva, per alleviare la fatica degli esseri umani. L’energia animale era comunque centrale. Progressivamente, in particolare con la combinazione tra scienza e tecnica, abbiamo creato le condizioni per cui il nostro corpo e la nostra mano sono stati posti al servizio della mente, con la macchina che è diventata un “soggetto” protagonista del nostro rapporto con il mondo. Il “soggetto” macchina ha caratterizzato l’intera nostra civiltà e ha smesso di essere solo un sostituto delle nostre azioni, per diventare capace di azioni di cui noi stessi che creiamo le macchine non siamo capaci. Questo aspetto è importante in quanto segna l’inizio di un processo sempre più intenso tuttora in corso, i cui esiti, come vedremo, sono incerti. Viviamo oggi una condizione in cui la macchina integra progressivamente la mente che la subisce, con la relativa “dissolvenza” della mano e del corpo. Si produce così un processo di assoggettamento, che deriva da uno strano gap: quello tra il creatore e l’oggetto creato, in cui il secondo in molti casi mostra di dominare il primo. Le trasformazioni del lavoro ne sono uno specchio evidente, ma anche le nostre esperienze della vita relazionale quotidiana in cui una macchina come lo smartphone mostra di non essere più solo una protesi, ma una componente costitutiva del nostro modo di essere. Questa evidente dimensione post-umana ci trova in buona misura assoggettati e assoggettabili, coinvolti in uno scarto problematico tra la macchina e la nostra capacità di governarla per non esserne governati. Due sembrano a questo punto le questioni principali, tra le altre, con cui fare i conti. La prima riguarda la creatività umana e le sue ricadute in termini di innogenesi. L’atto creativo esige non pochi passaggi critici per trasformarsi in innovazione. Il riconoscimento collettivo di un atto creativo si misura con i bias della conferma e con la dipendenza dalla storia, oltre che con altri impegnativi vincoli per diventare innovazione effettiva. La seconda questione ci riguarda più da vicino e coinvolge la nostra autonomia e la nostra libertà, ponendoci di fronte a una domanda decisiva: saremo capaci di usare la nostra competenza simbolica e il nostro linguaggio per estendere e potenziare le nostre menti, al fine di governare e non subire le macchine, soprattutto virtuali, che noi stessi abbiamo creato e che oggi dominano nelle scene delle nostre vite? Noi siamo passati da una centratura su energia-forza-urto, nel nostro rapporto col mondo, ad una situazione in cui viviamo, oggi, soprattutto di relazioni, accessibilità (ancora il movimento), creatività. Siamo, tuttavia, in buona misura ancora infanti simbolici eppure creativi, che attendono di diventare competenti e consapevoli dell’uso degli artefatti macchinici che loro stessi hanno creato, perché siano occasione di emancipazione e non di sudditanza.