Autenticità e stile alla ricerca della vita buona

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

L’autenticità può emergere dalla ricerca di un rapporto in presa diretta con il proprio mondo interno. Più che una categoria per classificare fenomeni del mondo ed espressioni degli altri; più che il contrario dell’ibridazione e della mescolanza, l’autenticità indica uno stile e lo stile non è una postura esteriore ma un gesto verso il mondo a partire da un positioning responsabile, muovendo dalla parola detta dal posto in cui si è.
Il contrario dell’autenticità è probabilmente l’indifferenza. Ovvero l’anestesia progressiva del proprio mondo interno fino alla negazione delle sollecitazioni empatiche che ci raggiungono dagli altri; fino alla negazione delle differenze che gli altri ci propongono con la loro presenza in ogni momento.
Siamo l’uno all’altro irriducibili; possiamo approssimarci e a volte anche con elevate risonanze, ma ciò è possibile solo se ogni entità è autonoma e cerca la via per dialogare con l’altra entità autonoma: l’autenticità è il riconoscimento di sé attraverso le differenze che si riescono a contenere nella propria autonomia.
Solo la disposizione e la capacità di rispondere a se stessi ci può rendere autentici: la prima responsabilità l’abbiamo, infatti, verso noi stessi riguardo al modo in cui viviamo la nostra unica vita.
L’autenticità si collega perciò alla nostra capacità effettiva di coniugare nella vita il verbo amare in ognuna delle sue forme: nella forma attiva (io amo); nella forma passiva (io sono amato); nella forma riflessiva (io mi amo). Spesso è l’incapacità di amarsi che si pone all’origine della difficoltà di amare e di ricevere amore. Il regista Rainer Werner Fassbinder, d’altra parte, scrive nelle proprie memorie: “sono i figli del falso amore i principali responsabili del male sulla terra”.
Così accade che il verbo amare, regolare nella coniugazione grammaticale sia spesso difettoso nella vita vissuta. E l’amarsi diviene narcisismo e indifferenza; l’amare diviene tendenza al possesso; l’essere amati diviene consegna alla dipendenza. Si tratta di altrettanti attacchi all’autenticità come vita sufficientemente buona in presa diretta con il proprio mondo interno.
L’arte ci indica un buon criterio di valutazione dell’autenticità: si definisce autentica non solo un’opera certificata come effettivamente realizzata dal suo autore, questo è solo l’aspetto formale; un’opera è autentica quando la sua rilevanza estetica risuona dall’autore all’osservatore o agli osservatori moltiplicando gli effetti della sua generatività all’infinito.
Nelle stesse culture dei diversi gruppi umani sulla terra spesso si parla di autenticità dei valori e in nome di essa si giunge persino alla violenza distruttiva. Ma all’osservazione attenta è possibile riconoscere che ogni cultura è debitrice a tutte le altre e con essa ibridata. Allora è il rapporto che sappiamo stabilire con i valori, non la loro replica cieca, a condurci all’autenticità di una posizione di vita sufficientemente buona.
La struttura dell’Iki nella tradizione giapponese indica proprio il rigore interiore nella ricerca e nell’espressione del proprio mondo interno portato ad espressione elegante nei gesti verso il mondo. La phronesis per Platone e i greci era “l’intelligenza che sta in guardia” sapendo che l’antropologia non può pretendere di capire tutta la sfera della vita buona, né l’economia può farlo.
L’autenticità emerge dalla passione, nel duplice senso di patire e desiderare l’espressione di sé, “niente di più che pensare a ciò che facciamo”, ha scritto Hanna Arendt. È la responsabilità di esprimere ciò che si è, non nascondendosi dietro maschere e, come ha scritto Fjodor M. Dostojevskij in Memorie del sottosuolo, “non si è responsabili se non si è liberi”.