Irretiti senza lavoro

Di Ugo Morelli


Hic et Nunc


Il racconto è di quelli che non lasciano scampo. Non ci sono vie di fuga. I ragazzi parlano commentando il suicidio di uno di loro che non ha trovato neppure uno scampolo di riconoscimento alla sua domanda di lavoro, finendo per non sentirsi nessuno. Come James Joyce nella lettera al figlio Giorgio del 3 giugno 1935, sembrano dire: “Ho gli occhi stanchi. Da più di mezzo secolo scrutano nel nulla dove hanno trovato un bellissimo niente”. Parlano anche della contrizione collettiva e diffusa, che trovano di maniera. Non si può dargli torto se non se la sentono di condividere l’ennesima commiserazione a fronte dell’indifferenza di fatto con cui è trattata la condizione giovanile rispetto al lavoro. Quattro su dieci di quelli che chiamiamo giovani non hanno una sola possibilità di sperimentare una briciola di autonomia svolgendo un’attività retribuita. Quelli di loro che hanno quella cosiddetta opportunità sono precari permanenti. Eppure quelli che ho di fronte continuano a investire in formazione, in aspettative, in speranza. Si sentono certamente parte del tasso di solitudine che affligge le relazioni e i legami sociali nella rete digitale e nella società dell’informazione. Loro sanno che viviamo in un’epoca in cui vige il proseguimento della vita con altri mezzi rispetto alla vita. Oggi, dicono, è lo strumento, in particolare le tecnologie e più puntualmente le tecnologie digitali, che ci inventano e escludono. Non riusciamo a reinventarci inventandoci nella tecnica che inventa lo strumento. Siamo noi lo “strumento” inutilizzato del nostro tempo, anche se molto utilizzati come utenti e consumatori. Loro studiano e sognano nuove invenzioni e innovazioni in cui attuare un seppur minimo progetto di vita. Intanto si sentono irretiti nella rete e non protagonisti della propria vita. Qualcuno parla di “disindividuazione programmata”: due paroloni per dire che avvertono di non farcela a individuarsi come vorrebbero e come ognuno si aspetta in una vita, poiché non ci sono le benché minime opportunità per riuscirci. Ascoltano e commentano i dati sull’assenza di lavoro e sugli effetti della precarietà come se la cosa non li riguardasse, con una freddezza anestetizzata. Come nella sceneggiatura di William Gibson per il film Johnny Mnemonic, raccontano di vivere una allucinazione collettiva elettronica che li colloca in una solitudine che li immunizza perfino rispetto a una sensibilità al presente, che farebbe troppo male per poterla sopportare. Né emerge tra loro, che sono qui in mezzo a noi, nella terra che si appella all’autonomia, un sentimento di differenza e salvaguardia. Sanno che tutto il mondo è paese e non cercano rifugio in un posto che sentono non in grado di offrirglielo.