Essere non essere……..Passione ed esattezza

A proposito di Breve storia del verbo essere, di Andrea Moro, Adelphi, Milano 2010; pp. 329.

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc




Se, come sostiene Andrea Moro nella nota a p. 246 del suo libro, “è lo stupore per la realtà che muove la scienza”, Breve storia del verbo essere è un libro denso di stupore, dettato dallo stupore e in grado di suscitarne. Anche Noam Chomsky, che di Moro è un riferimento costante, ha sostenuto che “è importante imparare a stupirsi di fatti semplici”. Nel suo percorso di ricerca denso di contributi originali e fondamentali Andrea Moro ha continuato a proporre la linguistica come un’occasione per esplorare la natura specifica dell’uomo. Un campo di particolare rilevanza per la ricerca e il lavoro psicosocioanalitico oggi è la ridefinizione e rifigurazione del significato di essere umano. Stiamo ridisegnando in modo decisivo e profondo la risposta alla domanda: che cosa significa essere umani. Il contributo di questo libro in tale direzione è decisivo e difficile da sopravvalutare. Il lavoro di Moro è attraversato dalla ricerca di due unità, ovvero di due unificazioni. La prima riguarda quello che Moro chiama “l’inesorabile e imbarazzante divorzio tra mente e corpo” (Moro, p. 54), a cui ci ha condotto il razionalismo cartesiano che, allo stesso tempo, ha sostenuto in modo essenziale la crescita delle scienze empiriche. L’attenzione per il metodo, divenuta spasmodica fin dalla fondazione della Schola Palatina di Aquisgrana da parte di Carlo Magno, assume le caratteristiche del codice della scienza; “il metodo come garanzia di efficacia nella ricerca” (…..) “e, naturalmente, al centro del metodo sta la logica , il meccanismo con il quale il pensiero procede e fa scoprire cose nuove o conferma concetti noti” (Moro, p. 55). La seconda unificazione o ricerca di unità riguarda la spiegazione e giustificazione della sostanziale unità del linguaggio umano. Certo, ci sono voluti “altri sette secoli di linguistica perché venisse riconfermata la sostanziale unità delle lingue umane, questa volta su base biologica e non teologica, grazie all’intuizione di un linguista americano, Noam Chomsky…..” (p. 57). Non solo, però, perché quell’unità è anche accompagnata da un limite ben documentato da Moro in un libro precedente, I confini di Babele, Longanesi, Milano 2006. In quel lavoro Moro si chiese perché non tutte le grammatiche concepibili sono realizzate nelle lingue del mondo. Utilizzando gli strumenti della linguistica formale e un approccio neuroscientifico sperimentale Moro è giunto a connettere i limiti delle variazioni possibili delle grammatiche alla struttura neurobiologica del cervello, aiutandoci a ripensare e a rifigurare la stessa natura umana, su basi evolutive e naturali. Siamo di fronte ad un contributo decisivo di superamento del dualismo in quanto il linguaggio e le lingue emergono come proprietà sia dalla natura e dalle strutture vincolanti del cervello umano, sia dalle relazioni sociali, come ha sostenuto anche G. M. Edelman: “Per cogliere i significati dobbiamo crescere e comunicare all’interno di una società”. Nella sua indagine sul verbo “essere”, Moro non solo ricostruisce la storia del verbo dalla Grecia classica fino a Bertrand Russel che riteneva il verbo “essere” una disgrazia per l’umanità, ma analizza i modi in cui il verbo essere penetra nel pensiero linguistico moderno inducendoci a ripensare alla radice la più fondamentale delle strutture del linguaggio umano, la frase. Il linguaggio è riconosciuto in tal modo come sintesi di natura e significato e la grammatica diviene lo “specchio della mente” (Moro, p. 62). Con una prosa stringente e chiara Moro scrive:
“Il linguaggio umano è, in fondo, il grande scandalo della natura: il linguaggio umano costringe a riconoscere una discontinuità immotivata e improvvisa tra gli esseri viventi; la sua struttura interrompe la scala evolutiva – come una singolarità inaspettata – e rivela l’ossatura della mente, come forse niente altro. E non perché il linguaggio umano permetta rappresentazioni del mondo, trasmissibili per giunta da un individuo ad un altro – anche una balena o, per quel che ne sappiamo, una libellula manifestano questa proprietà -, ma perché la struttura di questo codice non è condivisa con nessun altro animale né è presente in forma ‘embrionale’ o perfezionata a differenza di altre funzioni cognitive – come il senso di orientamento, la visione – o di apparati come quello circolatorio. Questo non ci renderà migliori delle balene o delle libellule – chi potrebbe mai sostenerlo? –, ma certamente ci rende speciali rispetto a tutte quante le specie viventi” (Moro, p.62). Il percorso del libro di Moro ricostruisce l’affascinante evoluzione della conoscenza scientifica sul linguaggio umano e attraversa i secoli passando per la straordinaria avventura degli studi condotti all’abbazia cistercense di Port-Royal fino ad arrivare alla pubblicazione di un “libretto” che nel 1957 finirà per cambiare tutto nel campo della conoscenza sul linguaggio umano. Il libretto si intitolava semplicemente Syntactic Structures e l’autore era Noam Chomsky. Era tratto da una poderosissima tesi di dottorato e distrusse tre miti: il primo, che sosteneva che la linguistica, a differenza delle altre scienze empiriche come la fisica o la biologia, non dovesse passare attraverso una procedura di scoperta che includa esperimenti e confutazioni; il secondo che non ê sufficiente un meccanismo di concatenazione lineare per avere una grammatica, che è molto più complessa e deve includere un apparato strutturale; il terzo che la nozione di semplicità globale di una grammatica è un elemento decisivo per valutare se la grammatica ê un buon modello su base biologica e psicologica. Chomsky, anche criticando il comportamentismo, arriverà poi a sostenere che gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale, ravvisando nel linguaggio un rivelatore della loro distinzione specie specifica. Forse l’esperienza estetica e la tensione a creare mondi, di cui il linguaggio umano è parte integrante, rivela cosa significa essere umani, come fa il linguaggio stesso. È questa l’ipotesi contenuta nel mio libro Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umbero Allemandi & C., Torino 2010, a cui mi permetto di rinviare. Nel cammino verso la costruzione di una teoria formale delle frasi con il verbo essere, e in generale in tutta la presentazione delle strutture sintattiche, Andrea Moro lavora su due ipotesi: una riguarda i sintagmi e i modi in cui le parole, combinandosi a due a due danno luogo a strutture asimmetriche e ricorsive; la seconda riguarda i movimenti sintattici e il fatto che alcune porzioni della struttura vengono copiate in posizioni più alte e solo la copia più alta viene pronunciata. La domanda di fondo riguarda come mai le due proprietà strutturali, sintagmi e movimento, sono compresenti nel codice della nostra specie (Moro, p. 247). Questa domanda dà vita ad una delle questioni decisive del libro: se il verbo essere è rappresentato in qualche modo nel cervello abbiamo bisogno di capire quali aspetti della struttura del linguaggio riusciamo a mettere in relazione con quello che sappiamo dell’architettura e del funzionamento del cervello (Moro, p. 261). Moro definisce imbarazzante la domanda perché “se da una parte sappiamo benissimo che la capacità degli esseri umani di comunicare sulla base di una grammatica è in qualche modo rappresentata nel cervello, dall’altra l’ordine di complessità e di conoscenza dei due domini pare a tutt’oggi pressoché incommensurabile malgrado gli enormi sforzi di ricerca” (Moro, p. 261). Del resto capire che il linguaggio si elabora proprio nel cervello non è stato e tuttora non è immediato. È stato il cuore ad essere identificato nel corso dei secoli come la sede delle emozioni e il centro dell’elaborazione della memoria e dei sentimenti. Per Aristotele il cervello era un organo per il raffreddamento del corpo. Come ricorda Moro, ancora oggi per gli inglesi sapere qualcosa a memoria si dice to know something by hearth. Ne deriva una delle più profonde lezioni di antiriduzionismo e di valorizzazione dell’ipotesi del vivente come proprietà emergente, nella proposta di Andrea Moro. Sostiene, infatti, Moro, che, indipendentemente di come ricostruire le reti che sottendono al complesso sistema della sintassi, anche se non abbiamo a tutt’oggi alcuna idea di come mappare gli elementi minimi del linguaggio – fonemi, morfemi, parole, sintagmi, - nella topografia funzionale e anatomica del cervello, i linguisti moderni non smettono di cercare i princìpi fondamentali cui ricondurre la complessità dei fenomeni linguistici anche se questi princìpi non sono immediatamente riconducibili a processi noti di natura psicologica (Moro, p. 263). Basterebbe la critica alla scoperta del cosiddetto “gene del linguaggio”, o FOXP2, (“Termine più infelice per questo gene ê difficile immaginarlo”, scrive Moro (pp. 272 – 273)) per riconoscere la complessità della ricerca che il libro propone e la forte tensione fra epistemologia e metodologia della ricerca stessa. Se si vuole ricorrere ad una metafora tecnologica che ci consenta di comprendere come il linguaggio sia una proprietà emergente non riducibile al cervello dal quale pure si origina Moro sostiene che i software cognitivi non sono imposti su quell’hardware che è il nostro cervello: ne sono invece l’espressione caratteristica, anzi l’unica espressione possibile, quasi che la carne sia essa stessa logos (Moro, p. 279). Tracciando un bilancio verso la fine del libro, un testo denso e accattivante, mai difficile da leggere e attraversato da un pathos umanistico davvero bello, Moro scrive: “….. la possibilità di individuare sperimentalmente nel cervello la rete neuronale dove il verso essere viene custodito si qualifica come un sogno che non ha nemmeno la dignità di una speranza: sappiamo certo che il verbo essere deve stare nel cervello, ma non sappiamo assolutamente né dove sia, né se mai saremo in grado di saperlo. D’altronde non sappiamo neppure dove stia qualsiasi altra singola parola, pur ammettendo, com’ê ragionevole che le parole non siano banalmente implementate in modo isolato ma che si trovino dentro a strutture, questa volta non solo in senso saussuriano del termine. Tuttavia non ci si deve arrendere” (Moro, pp. 279 – 280). La conclusione del libro è una sintesi che, per eleganza e pregnanza, ne contiene il valore e il senso per intero e vale la pena riportarla:
“Noi non vediamo la luce. Vediamo solo gli effetti che essa ha sugli oggetti. Sappiamo della sua esistenza solo perché viene riflessa da ciò che incontra nel suo cammino, rendendo così visibili gli oggetti, che altrimenti non vedremmo. Così un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa qualcosa. Allo stesso modo funzionano le parole: non hanno contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano qualcosa. Analizzare il linguaggio ê come analizzare la luce, ci si trova nella stessa condizione: impariamo a riconoscere che quello che sta scorrendo sotto i nostri occhi in questo momento ha un senso solo perché il nostro cervello è costruito per comprendere le frasi come istruzioni per produrre senso; non perché il senso risieda nelle frasi” (Moro, p. 295).