Il lavoro, nonostante noi perifrastici attivi usque ad principium!
Per rappresentare la diversità. Lavoro e sindacato oggi


Di Ugo Morelli


Hic et Nunc

“Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo,
per percepirne non le luci, ma il buio” [Giorgio Agamben]

Era il 14 luglio del 2005. A Torino per un incontro con Carlo Bonadies presso l’editore Einaudi, avevo preso accordi con Francesco Novara per vederci a metà giornata. Era a Ivrea quel giorno, per un incontro con la Fondazione Olivetti. Mi aveva dato appuntamento sotto un albero di via Solferino indicandomelo con un numero e la segnalazione di una panchina, con la solita impeccabile precisione. È arrivato puntualissimo, nella sua Mercedes datata color tabacco e in camicia a maniche corte. Mi ha salutato con affetto e in auto mi ha condotto nel bar dove aveva un tavolo riservato. Si è occupato della mia stanchezza, ti sarai mosso all’alba per venire fin qui, e ha ordinato per entrambi un frappé. Abbiamo conversato ininterrottamente per due ore e mi sono perso come sempre nella fitta e pacatamente assidua modalità di narrare di Francesco. Ha deciso di accompagnarmi in stazione in automobile. Al momento di salutarmi si è scusato con cura per non venire fino al binario. La ragione era l’appuntamento che dal suo diciottesimo compleanno, quindi da sessant’anni, aveva con un gruppo di compagni e amici per brindare insieme all’anniversario della Rivoluzione Francese. Ciao Francesco, ti dedico ancora una volta e sempre questi miei pensieri.

La perifrastica attiva indica, come è noto, la dinamica dell’accadere, ciò che è sul punto di avvenire, e spinge a volgere lo sguardo al divenire, nostro in coevoluzione con gli eventi della nostra vita. Tende a cogliere l’evento nel suo darsi evolutivo.
Noi umani siamo diventati gli esseri che non solo diventano ma sanno di diventare, non solo sanno ma sanno di sapere.
S
oprattutto siamo diventanti gli esseri che sono in grado di concepire e realizzare quello che ancora non c’è. La nostra creatività, infatti, nonostante i vincoli della persistenza della forza dell’abitudine, ci consente, investendo, di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali, i repertori esistenti.
Siamo creativi per nascita, fin dal principio, e per rappresentare il lavoro oggi abbiamo bisogno non solo di ascoltare e osservare come si sta ricreando, ma di ricreare i nostri stessi linguaggi e i nostri stessi orientamenti.

1. La meccanica del lavoro e dei corpi-mente umani al lavoro non esiste più. È il tempo il padrone, non più delle ferriere, ma delle relazioni, che sono l’oggetto cruciale dell’azione umana al lavoro nell’epoca della quarta rivoluzione industriale.
Laddove la fatica fisica meccanica la faceva da padrona è ora la fatica dell’altro lontano e sempre meno vicino a governare il gioco. Dove imperava l’essere del ruolo, sono i giochi linguistici immateriali del divenire facendo che producono segni di segni, in quanto ci fanno difetto le cose.
La crisi delle gerarchie tradizionali non ha dato vita, come sarebbe stato possibile, a una attenzione alle relazioni e alla creazione di comunità di lavoro come luoghi di produzione e riconoscimento reciproco. Ad affermarsi sembra essere stata una divaricazione tra accentramento del potere, spesso nelle mani di un solo individuo ritenuto salvifico e messianico, e l’avvento della singolarità e, quindi, della solitudine e della perdita di potere di chi offre lavoro, nella vita lavorativa.
In ogni caso, a caratterizzare la vita di lavoro è la solitudine.
La singolarità, per i lavoratori appare strettamente connessa alla precarietà. Prima ancora che essere un fatto relativo alle attuali regole contrattuali e alla effettiva perdita di potere dei lavoratori, la precarietà che causa la singolarità è un sentimento diffuso, uno stato d’animo, un modo di sentirsi dominato dalla paura. Paura di perdita di opportunità e di possibilità; paura dell’altro lavoratore che, nelle strategie di gestione basate sulla competitività esasperata, spesso diventa un nemico o un antagonista; paura del futuro proprio e di quello dei figli; paura di perdita di conoscenze, capacità e competenze in assenza di investimenti in formazione; paura di emarginazione; paura di cause indefinite che creano un clima di disagio e di indifferenza.
L’indifferenza come codice della crisi di legame nei luoghi di lavoro, si presenta come una progressiva sospensione della risonanza con gli altri, dell’appartenenza che può sostenere la partecipazione e la propositività, della motivazione che può indurre a investire in conoscenza e saperi necessari per ogni negoziazione progettuale.
A pensarci bene sono proprio gli assetti invisibili e immateriali che assurgono a risorse essenziali per ridefinire senso e significato del lavoro e ruolo e funzioni della rappresentanza.
Ma siamo in mezzo al guado.
Il luogo di lavoro è sentito ancora e principalmente come un mondo di cose.
Quelle, le cose, sono simulacri, non per questo spesso ancora pesanti e gravosi, dei significati che generano accoppiandosi con noi.
Mentre a precederci era la materia fisica delle cose e noi con la nostra energia materiale, e con la nostra forza le urtavamo e a loro volta ci urtavano, assistiamo oggi alla loro consistenza immateriale che ci inquieta, in quanto infanti simbolici.
Un rovesciamento che ci mette in difficoltà e ci trova impreparati.
La lunga durata della fame e della paura attanaglia ancora l’animale in ritardo che siamo, che pensa e guarda ancora alla conoscenza come un accessorio strumentale da procurarsi all’uopo, perché il pane verrebbe prima delle rose e l’oggetto fisico prima dell’informazione.
Non ci accorgiamo che è già la conoscenza a precederci e che la nostra capacità neotenica anticipatrice a cui l’evoluzione ci ha consegnato stenta a convincersene.
E allora, mentre siamo immersi in ogni aspetto della nostra vita nell’infosfera, continuiamo a tornare alla hylesfera, alla causa materiale sottostante come fonte di rassicurazione.
Si tratta con ogni evidenza di una rassicurazione effimera.
Sottostante alla materia è divenuta l’informazione e la meccanica dell’energia-forza-urto ha lasciato il posto a conoscenza-relazione-emergenza.
I nostri sistemi corpo-cervello-mente si recano ancora al lavoro, ma la crisalide quasi del tutto rinsecchita ha lasciato il posto, generandola per evoluzione, alla farfalla che ancora per poco e con nostalgica malinconia si sofferma intorno ai luoghi fisici e negli spazi lavorativi, a contemplare quello che fu prima di alleggerirsi e mettere le ali.
Ci muoviamo nello spazio fisico e con strumenti in mano e ancora siamo concentrati sulla loro apparente centralità. I nostri corpi si allontanano e si avvicinano agli oggetti materiali del lavoro, tecnologie e prodotti, e continuiamo a pensarci, in base all’ossessione di Taylor, come se fossimo entità biofisico-meccaniche che non devono pensare per non turbare il processo di produzione e i suoi tempi e metodi.
Così continuando, non ci siamo accorti che è il tempo il fattore critico, per noi al lavoro, oggi.
Il tempo cosiddetto reale dell’azione; il tempo immediato delle decisioni; il tempo ridotto al minimo quasi nullo della durata di una unità di conoscenza; il tempo evolutivo delle trasformazioni tecnologiche; il tempo vissuto (kairòs) sempre più distonico dal tempo computabile (kronos); il tempo della riflessione ridotto al tempo funzionale dell’esecuzione; il tempo di vita e il tempo di lavoro sempre meno definiti; il tempo della partecipazione schiacciato sul tempo del consumo. E sono solo una parte degli indicatori della profonda trasformazione esistenziale e lavorativa in corso.
La solida e persistente tenuta del significato del lavoro, quella terra nota e condivisa dove mondo interno e mondo esterno coincidevano grazie alla mediazione di un principio di realtà duraturo, dove il segno linguistico “lavoro” corrispondeva a una condivisione indiscussa e indiscutibile, sia da parte di chi lo offriva che da parte di chi lo comprava, si è sgretolata sotto l’azione del tempo, della tecnica e della quarta rivoluzione industriale.

2. Il segno linguistico “lavoro” è divenuto arbitrario.
Fino a un certo punto l’arbitrarietà si è sostenuta e fondata sull’antica nozione metafisica di una priorità del concetto sulla parola che lo dice, per cui il lavoro come conquista, come dignità, come fonte di emancipazione, come reputazione, come fatica, come riconoscimento di sé e degli altri, riesce a manifestare ancora una priorità del suo significato sul significante, cioè sulla parola che lo manifesta ed esprime.
È tuttavia proprio qui che sta l’indicatore più evidente della trasformazione: sul capovolgimento della gerarchia tra significato e significante del lavoro. Quando diciamo lavoro, oggi, non possiamo contare su un significato almeno in buona misura condiviso. Venuto meno un significato comune riconosciuto, il significante ha preso piede e presiede agli ordini, o meglio sarebbe dire ai disordini, del reale lavorativo.
Comprendersi nel gioco delle aspettative, delle motivazioni, degli investimenti personali, dei sensi di condivisione e appartenenza intorno al lavoro, tutti disarticolati e difficilmente riconducibili a significati condivisi, è diventato molto impegnativo e difficile.
Il segno linguistico “lavoro” si è fatto arbitrario ed è come se si fosse sganciato dall’esperienza per disperdersi in significati e prassi molto diversificate disarticolate, molto difficili da rappresentare.
Il mondo dei soggetti che ruotano intorno alle diverse e disarticolate forme di lavoro non hanno più un significato di riferimento, né mostra di avercelo il contesto sociale di riferimento, e particolarmente diversi sono i riferimenti significanti del lavoro che generazioni diverse in luoghi diversi hanno riguardo al lavoro.
La realtà del lavoro si è trasferita nel significante, o meglio nei significanti e va dal balbettio di simulazioni di significati provvisori almeno altrettanto quanto si propongono originali e duraturi, ad approdi accompagnati e giustificati con brandelli di ideologie tarde o futuribili, indifferentemente.
Siamo di fronte al sovvertimento di un ordine di senso che ha prodotto significati condivisi così a lungo, da mostrare una persistenza nonostante la sua avvenuta inconsistenza.
La situazione mostrerebbe, proprio per la sua natura in movimento, anche multiformi possibilità di apertura a nuovi percorsi di significato e, quindi, di rappresentanza, che richiederebbero sperimentazioni anche audaci, ma per ora mancano i linguaggi per parlare inedite conversazioni, inediti percorsi per versare in una direzione condivisa la molteplicità disarticolata.
Lo stesso frequente e a volte insistente richiamo alle periferie e ai margini, come luoghi potenzialmente germinali di nuovi linguaggi e nuove forme di rappresentanza, pare un appiglio in parte ideologico e precario se non corrisponde a un disegno in cui una cornice faccia da guida e da orientamento.
Ciò vale anche per la rivoluzione tecnologica che ha prodotto l’infosfera, e per la divisione costante tra apocalittici e integrati, che denota quanto sia precoce e poco approfondito il confronto, ma soprattutto non considera che si tratta, comunque, di una componente, per quanto pervasiva, delle trasformazioni di quello che è il fenomeno che insieme all’amore sta al centro della vita degli esseri umani, il lavoro.
La superficie verbale e, quindi, operativa nei modi di trattare il lavoro e di cercare di rappresentarlo, presenta un paesaggio di fossili e poche sparute piantine neonate e in difficoltà di affermazione e riconoscimento condiviso.
Chi si occupa di lavoro e di rappresentare il lavoro, in questo scenario, tende a persistere con tenacia falsamente rassicurante nella posizione di gestire le relazioni e il lavoro attraverso significanti direttamente prodotti e presunti come condivisi, ma mentre lo fa si trova nella posizione dell’ascolto di quel “fuori” che parla lingue inconsuete e spesso incomprensibili e su cui avverte di esercitare un’influenza scarsa e relativa, su cui percepisce di non avere potere se non in parte e in modo limitato.
Emergono allora frammenti e conglomerati verbali della durata di poche ore, sui quali però si tende a persistere più di quanto si tenda a sperimentare. Laddove solo l’ascolto, la ricerca, la sperimentazione, possono produrre diramazioni anche impervie e inedite, linguaggi originali e attuali verso vie innovative per rappresentare la diversità.

3. Le condizioni per estendere e rappresentare la diversità come un’idea guida per affermare il valore del lavoro nel ventunesimo secolo non sono facilmente individuabili. Una possibilità deriva dalla verifica di alcune delle ragioni che hanno portato ad identificare il lavoro solo come un costo, unitamente all’ideologia della fine del lavoro che ha preso piede con le forme prevalenti di elaborazione delle trasformazioni dovute alla quarta rivoluzione industriale e alla pervasività dell’informazione e delle tecnologie dell’automazione. Per perseguire questo obiettivo è necessaria una analisi critica della retorica nella cultura del lavoro e della vita organizzativa che si è affermata in modo pervasivo dagli anni Ottanta del ventesimo secolo. Ricordiamo tutti quanta parte abbia avuto nella costruzione del senso comune e delle visioni della vita e del mondo la combinazione tra il pensiero unico liberista e la retorica dell’eroismo manageriale. Basterebbe richiamare alcuni dei “metodi” americani diffusi nel mondo, come ad esempio quello che intendeva insegnare ai manager a leggere un libro in un’ora, limitandosi alla prima parola di ogni riga; o i corsi per l’uso di un’agenda che si chiamava sintomaticamente “Time Manager”; o ancora a intere collane di libri che si intitolavano, ad esempio: diventare leader vincenti in cinquanta minuti. Un ruolo decisivo l’hanno svolto le business school e la formazione manageriale in generale, nell’affermare modelli cosiddetti vincenti, in cui la qualità era sempre totale, le performance erano sempre eccellenti e le motivazioni erano sempre vincenti. La crisi complessiva della formazione nei luoghi di lavoro e il disinvestimento nella valorizzazione delle professionalità hanno coinciso con l’avvento dell’ansia da prestazione, con l’utilizzo della misurazione del merito come strumento di divisione e spesso di cannibalismo tra lavoratori, con le stock-option come mezzi per esasperare la funzione di dominio nell’esercizio del potere nelle organizzazioni lavorative. Questi veri e propri motori dell’aziendalismo retorico, che spesso ha portato alla crisi delle aziende ed è una delle cause principali della crisi mondiale del duemilasette – duemilaotto, sono stati fattori costitutivi della perdita della padronanza del tempo e della crisi della relativa padronanza conoscitiva sul lavoro vivo e sui patrimoni di sapere per svolgerlo, da parte dei lavoratori. Quel processo di alienazione ha disarcionato i lavoratori e la loro coscienza dei patrimoni di conoscenza che conferiscono potere sui processi e sulle relazioni lavorative; coscienza di governo del ben fatto, di riconoscimento con il prodotto, mentre la singolarità logorava le forme di solidarietà nei gruppi di lavoro. Il potere della conoscenza e il potere dell’alleanza solidale sono stati messi in discussione e rappresentano oggi materia di ricerca per la costituzione di processi di emancipazione e di rappresentanza alla temperatura del nostro tempo.
Conoscenza, forme di vita lavorativa solidale e potere nelle relazioni asimmetriche nell’esperienza di lavoro hanno a che fare con il livello di democrazia e con la sua crisi nei luoghi di lavoro. La pluralità e l’apertura della democrazia l’hanno resa sempre esposta e, per certi aspetti, imperfetta e fragile. È proprio l’imperfezione però la genesi e la natura stessa della democrazia, inclusa la sua fragilità. Quell’imperfezione si è tradotta in una caduta del confronto possibile, in una crisi di partecipazione effettiva, fino alla neutralizzazione di ogni forma di conflitto, inteso come confronto anche serrato tra interessi diversi, culture diverse, patrimoni conoscitivi differenti, differenti percorsi di individuazione e riconoscimento. Lo stesso sindacato si è ritrovato in una crescente difficoltà di ascolto e interpretazione della domanda del demos lavorativo, avendo di conseguenza una crisi nell’esercizio del kratos di rappresentanza, non solo delle nuove forme di lavoro sfuggenti per le loro inedite caratteristiche alla rappresentanza tradizionale, ma anche nei confronti dei malesseri dei lavoratori in generale.
I segni di questa deriva critica sono, tra gli altri, il calo tendenziale della fiducia negli organismi di intermediazione e rappresentanza; la riduzione della partecipazione attiva; l’ aumento della volatilità dell’appartenenza; l’incremento del numero delle realtà di rappresentanza con diversi livelli di riconoscibilità e di istituzionalizzazione; l’intensificazione della singolaritàla disarticolazione delle forme di lavoro e delle relative modalità contrattuali; la diffusione di stile e atteggiamento antagonisti e indifferenti; i linguaggi desueti delle istituzioni di rappresentanza, compreso il sindacato. Una democrazia lavorativa indebolita lascia spazio all’emergere di comportamenti istintivi, orientati quasi esclusivamente al breve periodo e la tempo presente e fortemente influenzati dall’immaginario dominante centrato su modelli di vita consumistici. Si crea in tal modo una corrispondenza problematica tra la crisi di legame sociale e l’indifferenza presenti nella vita pubblica e un degrado dell’umanesimo nei luoghi di lavoro. Quell’umanesimo aveva caratterizzato come un tratto distintivo la vita lavorativa e organizzativa in paesi come l’Italia e nei paesi europei. Non per niente dalla realtà francese sono venuti gli studi critici più interessanti sulla crisi delle forme di lavoro, sui processi di alienazione, sulla frantumazione del lavoro e sull’umanesimo manageriale, che trova una delle sue più distintive espressione nell’esperienza olivettiana in Italia. Se la modernità è fatta di macchine di ogni tipo, e le macchine sono state da sempre tekne, l’estensione delle donne e degli uomini, delle loro mani e delle loro menti, le trasformazioni in corso hanno visto l’avvento della centralità delle menti e la conoscenza applicata è diventata risorsa primaria. Questa trasformazione è stata soprattutto subita dai lavoratori e dal sindacato. Il timore che ha accompagnato le macchine nella modernità, quel timore di esserne dominati nel tentativo di dominarle, a un certo punto si è trasformato in paura di esclusione e di dominio da parte delle macchine. L’uomo prima di tutto, o l’espressione di Adriano Olivetti: “è l’impresa per l’uomo e non l’uomo per l’impresa”, sono divenute concezioni trascurate, eluse, o sovvertite dalla centralità del profitto d ogni costo, dimenticando che lo scopo principale di un’impresa è produrre beni utili e preferiti per il mondo, come diceva Francesco Novara, e una volta remunerati i fattori, in primo luogo il lavoro, guadagnare gli utili. E’ quell’umanesimo lavorativo e organizzativo che è andato in crisi, trasformando i prodotti dal ben fatto a commodities, il valore del lavoro in meriti, la capacità di guida e di leadership in stock-option.
Da questi processi trasformativi emerge la crisi della democrazia nei luoghi di lavoro e intorno ai temi del lavoro, e pure dalla traduzione normativa delle spinte delle componenti dominanti nella società, nella politica e, dispiace sostenerlo, nel mondo di chi studia il diritto e la psicologia del lavoro, che da un certo momento in poi mostra di assecondare in maniera acritica le scelte che tendono a considerare il lavoro solo uno strumento per vivere e non una delle principali fonti di significato e riconoscimento nella vita delle persone.
Quella crisi si è prodotta a seguito di mutamenti fortemente voluti in tutto l’Occidente e che proseguono e si intensificano nella contemporaneità.
Il malessere democratico che deriva dalla lunga transizione all’ipermodernità si esprime ed è connesso con l’individualizzazione, la fine delle grandi narrazioni, la perdita del senso sociale, la crisi del sapere, delle istituzioni e delle autorità cognitive; con le nuove percezioni e concezioni del tempo e dello spazio; con la sindrome consumistica e logica dell’‘usa e getta’; con la crisi delle identità e la fine delle comunità solide; con il narcisismo; con l’estetica triste. L’elaborazione di quella trasformazione avrebbe potuto essere diversa e tuttora può essere diversa se venisse assunta come un compito, un progetto e un’invenzione l’affermazione del valore del lavoro, e la giustizia sociale e la centralità dell’espressione e della creatività umana che rendono il lavoro un’esperienza emancipativa e fonte di civiltà.
Se il mutamento in atto è totale perché cambia il nostro modo di percepire le cose, di pensare e di comportarci, è necessario sviluppare conoscenze e capacità per governare quel mutamento e non subirlo.
La singolarità, le gratificazioni consumistiche immediate, le scelte di voto fatte con la stessa logica e volatilità delle scelte di consumo, non sono un destino, ma una delle manifestazioni, forse la più intensa e pervasiva, dello scarto fra tecnica e valori, tra innovazioni socio-tecniche e capacità umane di contenerle e governarle. La crisi della partecipazione con la propensione a consegnarsi a emozioni forti proposte da condottieri salvifici non è scritta nel destino, ma è il risultato di una difficoltà a organizzarsi di fronte alla profonda trasformazione in atto. È possibile però non seguire il pifferaio magico che organizza il proprio consenso sui desideri fingendo di garantirne facilmente la soddisfazione; è possibile, cioè, assumersi la responsabilità di conoscere il presente, di riflettere e organizzarsi per abitarlo consapevolmente e da protagonisti: il lavoro, le sue forme e la sua organizzazione possono essere una delle basi principali per farlo. Per questo il sindacato può divenire uno dei principali soggetti di cambiamento e innovazione civile e sociale.

4. Per parlare di lavoro e agire nel lavoro e rispetto al lavoro, per viverlo e rappresentarlo alla temperatura del nostro tempo, abbiamo bisogno di fare un uso della parola, per quanto possibile, nudo.
Parola nuda in primo luogo delle ideologie, delle morali, delle vetuste e superate modalità di intendere il lavoro che tuttora impastano i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre pratiche intorno al lavoro, a partire dalla messa in discussione dell’idea di lavoro come condanna, come destino, come stabile per tutta la vita nello stesso luogo.
Bisogna dirla, quella parola, senza ripetersi, senza ripetere il già detto, per non farsi prendere dall’abitudine e dalla convenzione e per scongiurare ogni forzatura che porti in derive dove precocemente si pensi di aver trovato i nuovi linguaggi e le soluzioni.
Senza rimuovere il presente e i suoi vincoli, si tratta con ogni probabilità di risalire a un tempo più lontano, un tempo prima di questo tempo.
La svolta epocale che stiamo vivendo e in cui siamo immersi in buona misura senza accorgercene e senza renderci conto delle sue implicazioni e della sua portata, è tale da riportarci alle origini, nell’esperienza umana, del passaggio tra fare per fare in modo immediato e pratico, all’invenzione del lavoro come azione intenzionale per realizzare un’opera preconcepita.
Raccogliere una spiga di grano, nell’economia dei raccoglitori, deve aver voluto dire procedere a verificare la commestibilità dei chicchi per prova ed errore. Le verifiche devono essere state costose, ma forse non quanto concepire l’ipotesi e la successiva scelta di mettere a dimora nella terra i chicchi anziché mangiarli. Fare quella scelta ha comportato non solo la formulazione di un’ipotesi, ma anche correre il rischio dell’insuccesso; non solo: ha voluto dire essere capaci di contenere l’attesa di mesi in base alla preconcezione di un esito probabile e incerto.
Nel tempo prima di questo tempo il lavoro deve essersi manifestato come esperienza emergente al punto di connessione tra l’evoluzione del mondo interno degli esseri umani, le risorse ambientali disponibili, le tecnologie utilizzabili, per quanto elementari, l’investimento affettivo e cognitivo per preconcepire un esito e l’azione umana cooperante per intervenire nel mondo esterno. La contemplazione dell’opera, l’esito finale, tante spighe quanti erano i chicchi, o forse qualcuna in meno su cui saranno nate nuove domande, deve essere stata fonte di stupore e meraviglia e ha dato vita al senso dell’opera dell’uomo, al significato del lavoro.
Il procedere di una prefigurazione è necessario oggi, come allora, con il ricorso a fattori del tutto cambiati e per molti aspetti inediti. Si tratta però di riprendere dagli essenziali, dagli elementari, da noi mancanti, ascoltando quella mancanza che, se può essere un baratro, è anche l’utero di ogni innovazione e di ogni cambiamento.
Siamo gli esseri che in quanto mancanti, siamo in grado di promettere. Possiamo fare delle promesse, nel senso di “mettere prima”, di anticipare.
La configurazione del lavoro nella quarta rivoluzione industriale attende, quindi, una promessa in grado di definirne le forme, le conoscenze che il lavoro compongono, le relazioni e le azioni implicate, il linguaggio per dirlo, negoziarlo, rappresentarlo e inventarlo e reinventarlo.
La valorizzazione attuale del lavoro e della sua rappresentanza come fonte di legame sociale, di civiltà e di democrazia, richiede una visione e una cornice per inscriversi nella contemporaneità con una inedita narrazione. Noi umani siamo di fronte a quella che a tutti gli effetti è la nostra ultima e la nostra prima possibilità. Ultima, in quanto siamo sull’orlo del baratro dell’autodistruzione ecologica; prima, perché è la prima volta che abbiamo una consapevolezza della nostra condizione planetaria, della nostra appartenenza al sistema vivente e della coevoluzione con esso come unica condizione della nostra vivibilità. Ce ne dovrebbe derivare una spinta da porre a cornice delle nostre scelte individuali e collettive, private e pubbliche; una determinazione a muoverci verso una nuova fondazione ontologica del contesto in cui viviamo, che ponga a tema le possibilità esistenziali derivanti da un uso virtuoso delle tecnologie, e una visione olistica della vita sul pianeta, secondo la quale ogni essere compartecipa di un superorganismo interconnesso. L’opera e il lavoro delle donne e degli uomini hanno bisogno di riconoscere che è il limite la condizione delle possibilità e di agire e relazionarsi di conseguenza.

5. Il capitale simbolico è, non da ora, il fattore critico nell'era digitale e molti continuano a guardare alla forza fisica e al mondo materiale per cercare di capire dove va il lavoro e da dove possa emergere, cercandolo, il senso del lavoro e della rappresentanza, oggi. Appropriarsi della conoscenza, dove tutto si origina, è la condizione per andare oltre l'orizzonte degli eventi dove tutto finisce.
Un attrattore pervasivo ha trasformato il lavoro come lo abbiamo conosciuto, non solo dalle origini dell’era industriale, ma dalle origini della sedentarietà umana e dell’accumulazione delle conoscenze applicate e delle tecnologie a lenta trasformazione.
Le tecnologie a rapida trasformazione e la loro dimensione prevalentemente cognitiva prodotte dagli esseri umani e dalle culture umane nella quarta rivoluzione industriale, trasformano il lavoro e, soprattutto le menti relazionali a lavoro.

The game unplugged