Non c'è pace senza conflitto
A proposito della “Science for peace charter”

Di Ugo Morelli.
Archivio Sezione Hic et Nunc


Colpisce che scienziati e filosofi della scienza che hanno a disposizione il gotha della carta stampata italiana e che esibiscono ad ogni piè sospinto l’elogio della scienza fino al limite di posizioni scientiste, a proposito della guerra non riescano ad andare oltre dichiarazioni di principio, auspici e atti di fede. Eppure basterebbe leggere un classico come il carteggio Einstein-Freud sul tema, per rendersi conto che di buone intenzioni sono pieni i fossi e che le credenze sulla preferibilità della pace non sono mai bastate ad evitare le guerre. Colpisce insomma l’assenza dei minimi criteri del metodo scientifico nell’analizzare un fenomeno così rilevante e pervasivo dell’esperienza umana. Un paradosoo per chi di scienza si riempie la bocca fino ad assumere posizioni che spesso appaiono “sacerdotali”, ancorchè mediaticamente molto produttive di visibilità. Né pare francamente una novità ingegnarsi a sostenere che gli esseri umani non sono naturalmente buoni e che “l’uomo non ha nel suo Dna il gene della guerra ma neanche quello della pace”. Se non si tratta di spiegare l’aggressività con la sola biologia e neppure di pensare che l’uomo sia buono per natura, rimane tutta intera la domanda: perché l’aggressività umana, tratto distintivo della specie (da ad-gredior, l’aggressività indica l’approssimazione relazionale come condizione della socialità umana, nell’amore come nella guerra) si esprime a volte in distruttività e a volte in comportamenti cooperativi e mutualistici? Se non basta la biologia a comprendere i comportamenti umani, non è neppure una spiegazione ipersocializzata delle scelte umane a risolvere la questione. Molte sono le fonti che mostrano come l’elaborazione per via distruttiva dell’aggressività sia connessa a processi storicamente situati e dipenda dalle contingenze storiche. Sarà però necessario tornare ad un’attenta analisi dell’aggressività umana e della sua espressione intraspecifica se non si vuole banalizzare il rapporto tra aggressività, conflitto, distruttività e cooperazione. La tradizione di studi intorno alla pace e alla guerra ci suggerisce di non rimanere ancorati ad una visione moralistica della imponente questione. Le analisi di Gaston Bouthoul, Franco Fornari, Luigi Pagliarani, Norberto Bobbio, solo per citare alcuni autori decisivi, apre a ben altre prospettive ed esigenze di approfondimento che la geenrica affermazione con la quale si sostiene che “tutto dipende dalle scelte che compie (l’uomo) per creare la società e la cultura in cui vivere” (quotidiano la Repubblica, sabato 13 novembre 2010). L’affermazione è talmente generica che, o è soporifera o è banale. La domanda rilevante in proposito riguarda proprio la natura dei processi che sostengono quelle scelte. Si tratta di chiedersi perché le donne e gli uomini scelgono in un certo modo o in un altro. Sostenere che la guerra e la pace sono un’invenzione culturale e sociale non significa nulla se non si analizza e comprende il processo di quell’invenzione e le dinamiche psichiche e relazionali che le sostengono, lasciando emergere di volta in volta, comportamenti prevalentemente conflittuali, antagonistici o cooperativi. Sostenere, inoltre, che se un società “è fondata su una cultura della pace emergerà l’attitudine alla solidarietà e alla pace; se è fondata sulla paura e sull’odio, emergerà l’attitudine alla guerra e alla violenza organizzata”, come si fa nell’intervista di presentazione della Science for peace charter, in un inserto a pagamento del giornale “la Repubblica” del 13 novembre, vuol dire introdurre un determinismo ipersemplificante che non ha nessuna giustificazione scientifica. Educare alla pace e creare regole sociali e politiche che promuovano la pace sono attività che devono misurarsi con la constatazione storica che la pace non è pacifica. Tutti gli studi condotti sui gruppi e sui collettivi umani mostrano, infatti, che lo stato di “pace” è generatore di ansie profonde e di conformismi altamente inquietanti, in grado di stimolare l’aggressività verso forme diverse di distruttività. I processi e i meccanismi dell’influenza sociale non funzionano in maniera deterministica e semplice, almeno non della semplicità che piacerebbe ad una visione moralistica della pace e della guerra. È proprio la scienza, con i risultati parziali ma rilevanti, degli studi di polemologia e di evoluzione dei conflitti, a mettere in discussione gli assunti su cui si basa la carta degli scienziati per la pace. Il principale punto critico di tutto l’impianto che sostiene la carta e i dieci punti di cui è composta, è l’assenza di un’attenzione analitica e progettuale al tema del conflitto. Anche nell’articolo che Umberto Veronesi ha scritto, sempre sul giornale la Repubblica del 18 novembre 2010, il conflitto è considerato chiaramente come sinonimo di guerra. Secondo Veronesi la ricerca scientifica dimostrerebbe che “non esiste nel nostro Dna il gene della ‘conflittualità’, vale a dire l’uomo non è affatto geneticamente predisposto alla violenza e alla sopraffazione; le guerre sono nate nel corso dell’evoluzione per influenze esterne ed essenzialmente per far fronte a situazioni di insicurezza e calamità”.

parole

Vi sono almeno due punti in questa analisi che meritano una precisazione. Se non abbiamo elementi per affermare l’esistenza del gene della distruttività nel nostro Dna, possiamo attendibilmente sostenere che siamo una specie conflittuale. Se la vita è differenza che genera differenze, come sostiene Gregory Bateson, abbiamo sufficienti elementi per sostenere che il conflitto, inteso come incontro di differenze e non come sinonimo di guerra e antagonismo, sia costitutivo della nostra storia evolutiva e della nostra esperienza. Allo stesso tempo è necessario riconoscere che se le influenze esterne vengono in qualche modo e in una certa misura interiorizzate, esse hanno dei correlati bio-psichici che riguardano l’aggressività umana come carattere distintivo specie specifico. Appare perciò rilevante distinguere tra distruttività e aggressività e tra guerra e conflitto.
Sostenere, poi, che “la guerra va contro l’innovazione e lo sviluppo, che sono invece gli obiettivi della scienza”, appare sconcertante se si assume un punto di vista scientifico. La scienza si occupa di come si esprimono i fenomeni e non di come dovrebbe andare il mondo e, che gli obiettivi della scienza siano l’innovazione e lo sviluppo è un’affermazione “metafisica” che, peraltro, non trova conferme nella storia, laddove la scienza ha svolto funzioni allo stesso tempo costruttive e distruttive dal punto di vista dell’evoluzione della specie e delle specie.

Quando ci si chiede perché il mondo civile ammetta ancora la guerra e anzi la progetti e ne studi le strategie, la risposta diventa addirittura “semplice: perché manca coscienza e cultura”. La guerra è l’esito di comportamenti coscienti e di culture definite, anzi molto definite. È una precisa scelta di valori che sostiene la distruttività e la piena coscienza di un obiettivo indiscutibile e indiscusso. Perché il pensiero si alimenti di dubbi, come si dice del pensiero scientifico, sono necessari il conflitto della conoscenza e la capacità di elaborarlo. Se si è in grado di riconoscere il conflitto come “madre” di tutte le cose, allora si può accedere al dialogo interreligioso: dialogo e conflitto sono sinonimi. Si può accedere alla valorizzazione del ruolo delle donne e all’incontro, (ancora una volta il conflitto), tra codice materno e codice paterno; si può riconoscere attraverso molti passaggi difficili e conflittuali la possibilità di un’ “economia della pace”.
Affermare con enfasi che la nostra specie non è naturalmente buona non aggiunge nulla di nuovo. Si sostiene una tesi nota da tempo che però deve fare i conti anche con tutte le verifiche sperimentali delle pratiche di altruismo, non solo umano ma anche di altre specie, che si stanno accumulando negli ultimi anni. Non solo, ma si afferma ancora una prospettiva dualistica che separa natura e cultura. Se un uso deterministico della biologia per spiegare i comportamenti umani è improprio, altrettanto lo è trascurare la ricorsività circolare tra natura e cultura, quella che fa della nostra una specie naturalculturale, per dirla con Giorgio Prodi. Un progetto educativo, e ancor più un manifesto, che vogliano assumere la pace come obiettivo, dovrebbero promuovere una cultura del conflitto, inteso come incontro tra differenze e disponibilità alla elaborazione delle differenze, ovvero dei vincoli e delle possibilità che esse comportano. Vale perciò il monito di Luigi Pagliarani: se vuoi la pace prepara la capacità di gestione del conflitto.