L’ambiguità originaria, ovvero l'arte di Anish Kapoor

di Ugo Morelli
Archivio Sezione Hic et Nunc

Alle origini, il mondo, tutto ciò che noi chiamiamo mondo, potrebbe aver cercato un senso. Ciò appare plausibile se poi, con l’evoluzione, si è casualmente verificato l’avvento di una specie che nella ricerca del senso trova uno dei suoi tratti distintivi. Nella lenta ed estenuante ripetizione evolutiva sarebbe emersa una parte del tutto, la specie umana, che seppur non da subito e seppur immersa nella ripetizione, avrebbe espresso una differenza peculiare: essere vincolata alla persistenza e generare un’emergenza discontinua in grado di interrompere o sospendere la perfetta coincidenza con se stessa. Quel minuscolo scarto di autospiazzamento, con la relativa capacità di elaborare sospendendolo, anche se per brevi istanti, il vincolo, ha generato, con la nostra specie, la possibilità di dar senso al tutto, ma anche l’ostacolo a creare nuovi sensi del mondo che quella possibilità in se stessa contiene. Nella tensione a elaborare e superare quell’ostacolo, gli individui della specie vivono l’esistente in parte coincidendo con esso e in  parte rinviando ad altro e all’oltre. Forme che si autogenerano sono le forme di vita e l’uomo che è una forma tra le tante si distingue per la tensione a non accettare di autogenerarsi, in quanto, appunto, tende a cercare e creare continuamente il senso della propria autogenerazione rinviandolo ad “altro”. Laddove esiste un vincolo emerge una possibilità e, per l’uomo, quella possibilità è continuamente estesa.
L’opera di Anish Kapoor coglie fino al perturbante i moti e gli istanti originari e generativi del senso dell’esistente, proprio nella sua emergenza improbabile eppure evidente ed effettiva. Si tratta di un riconoscimento. Tra gioco e realtà, tra persistenza ed emergenza, tra inclusione e illusione, colui che è distinto dall’essere sense-maker, homo sapiens, con Kapoor si trova di fronte alla possibilità di entrare nell’ambiguità delle origini: ogni opera è una testimonianza evidente del pieno-vuoto originario. La capacità di illuderci che ci fa umani rende indistinguibili l’onirico e il reale: con Kapoor l’onirico e il reale si confondono e si sente che la materia che ti genera è la stessa che ti inghiotte. Si può avvertire il respiro del mondo in una levigata cavità che trascina, oltre la forma, nell’infinito, mentre i colori nella loro essenza primordiale parlano delle cose al loro inizio, del sangue della terra. Il movimento contiene allo stesso tempo la sua negazione e nella sua estenuante lentezza sta la sua generatività, come accade per il treno presentato prima a Nantes, poi a Munich e ora alla Royal Academy of Arts of London. Mentre gli occhi vanno in secondo piano, Kapoor si sente con il corpo, e si è allo stesso tempo assorbiti eppure liberati dalle sue forme-colore, in un gioco di attrazione e desiderio di fuga. Sia nelle grandi forme, come accadeva a Napoli in Piazza Plebiscito per un’installazione di fine anno, sia nelle minime costruzioni di puro colore, si entra nell’intimo della materia e a parlare è, seppur per pochi insostenibili istanti, l’origine di tutto che giunge a noi senza alcuna mediazione. L’arte è forse questo: la creazione di connessioni, allo stesso tempo riflettenti e immediate, con l’intimità delle origini.